in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 57 Roma, Di Renzo Editore, 2005 – Estratto
Scavando nel passato della psicoanalisi, diciamo poco più di mezzo secolo dopo la pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Freud, qualunque studioso può accedere ad un prezioso scritto di Jay Haley che quando mi capitò tra le mani mi sembrò assolutamente sorprendente e modernissimo. E questo articolo ricordo di averlo letto per la prima volta una ventina di anni fa. Ogni tanto vado segretamente e voluttuosamente a ripassarmelo. Ed ogni volta trovo che sia un lavoro davvero rivoluzionario, un vero diamante per perfezione e lucidità.
Che cosa dice in sostanza? Che la psicoanalisi, sulla base di un lunghissimo studio (qualche anno) basato su interviste che il redattore definisce top-secret (in quanto mai pubblicate come tali, ma prese in considerazione nella loro totalità), effettuate a seri ed affermati professionisti della psiche in Europa e nelle Americhe (i cui nomi restano segreti), che la psicoanalisi, ripeto, è paragonabile all’invenzione del martello.
Da quando il martello è stato inventato poco o nulla è stato aggiunto alla sua utilità e funzionalità.
Semplicemente l’uso del martello è rimasto lo stesso nel tempo. Non esiste ancora, infatti, uno strumento capace di sostituire il vecchio martello, se escludiamo utensili di fortuna come il tacco della scarpa maschile o qualche altro corpo contundente schiacciato come potrebbe essere il batticarne del macellaio.
Entrambi i due esempi naturalmente non riescono a reggere il paragone con il buon martello, che resta lo strumento di elezione per piantare un chiodo o schiodarlo.
Così è la psicoanalisi, conclude Jay Haley. L’invenzione di Freud rimane imbattibile e insuperabile perché è semplicemente inespugnabile.
Ed è inespugnabile perché è costruita con degli stratagemmi che se ci facciamo caso sono decisamente perfetti.
Forse non sarà superfluo ricordarli: il setting, i tempi, i modi, il denaro, gli intenti, il lettino o la poltrona.
Questi stratagemmi, che l’autore definisce ploys, contribuiscono tutti ad un fondamentale esercizio professionale che viene chiamato supremazia.
Il lavoro analitico consiste nell’effettuare continuamente un’opera di supremazia sul cliente per consentire allo stesso di raggiungere questa stessa supremazia che coincide con la conquista della salute mentale e della autonomia psichica e relazionale.
In altre parole lo psicoanalista lotta apparentemente contro il paziente (ma a suo favore in realtà) per metterlo continuamente al tappeto.
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Ciascuno può scegliere i modelli di riferimento che preferisce oppure crearne uno nuovo in barba a tutti gli altri: va bene lo psicoanalista comprensivo, quello feroce, il compagno di giochi, il padre o la mamma che non ci sono stati, la perfetta padrona di casa, il dandy o lo snob aristocratico com’era il principe Masud Khan.
Ciascuno può essere un giusto archetipo ma l’importante è essere e non simulare.
E’ difficile spacciarsi per uno psicoanalista se non si è capaci di fare lo psicoanalista. E l’unico modo reale per essere uno psicoanalista del presente e del futuro credo sia quello di essere capace di costruire e stabilire relazioni di affetto, di amore, con se stessi e con gli altri, fuori e dentro l’analisi.
In questo credo che il più moderno, esemplare futuristico psicoanalista sia stato Sandor Ferenczi. E’ stato lui per primo ad affermare che non poteva esserci relazione oggettuale terapeutica dove non fosse presente l’amore. Chi non è in grado di costruire una relazione di affetto, di amicizia, d’amore non è in grado di costruire il futuro ma è soltanto incline a promuovere conflitti.
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Lo scrittore latino Terenzio nel Punitore di se stesso ha enunciato uno dei principi basilari della psicoanalisi (che poi coincide con le basi della comprensione umana) e che recita: “homo sum, nil a me humani alienum puto”. In queste otto parole è condensato il senso della vita umana: non c’è niente di umano che non mi appartenga. Ed il concetto di alieno, di marziano che aleggia in queste parole come rivale dell’umano, come contrario agli aspetti sani del genere umano, fa appunto pensare alla necessità di noi alienisti (una volta eravamo chiamati così, ma pensate quanto futuristico è il termine) di stabilire un contatto, di aprire un dialogo con quelli che hanno perduto molte o quasi tutte le caratteristiche umane.
Per questo si è fatta strada dentro di me che la ragione di coloro che intendono continuamente generare conflitti risiede in nuclei malati che meritano la possibilità di essere curati e non importa se i fallimenti saranno troppi, se possiamo contare su qualche sudata vittoria isolata. Come spesso si sente dire al cinema dobbiamo imparare a non farne una questione personale, ma capire che i disastri analitici o le ingratitudini che subiamo fanno anch’essi parte del nostro iter professionale e umano, e riusciremo a capirne il senso, sia noi che i nostri pazienti, forse in tempi diversi e più lunghi. L’arte è lunga, la vita è breve, recita il vecchio adagio e la vera luce che deve guidarci nel cammino è quella della nostra coscienza che ci consentirà sempre di illuminare il buio.