(con Simonetta Putti), in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 11, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008 – Estratto
La prima – superficiale – impressione potrebbe essere quella che parlare di peccati sia argomento un po’ antiquato, che il tema evochi oscure atmosfere chiesastiche dove il prete dal pulpito, o nel suo ruolo di catechista, tuonava contro i pericoli di cadere in tentazione, evocando terribili immagini di fuoco eterno. Pensiamo a Savonarola…, ma anche all’educazione sperimentata nelle scuole cattoliche, forse sino a quaranta anni fa.
Ogni mattina, quando apriamo il giornale, leggiamo il mattinale dei peccati che, appunto per la loro rituale quotidianità, hanno perso forse troppo l’originaria caratteristica di male da rifuggire . Ogni giorno, dunque, abbiamo il bollettino dei casi di furti, di falsa testimonianza, di avarizia (nella forma di una ricerca smodata di ricchezza a danno di altri), di lussuria, di gola, di omicidi, di superbia e, infine, anche di accidia, peccato capitale che sembrerebbe desueto, ma viceversa è diffuso ed endemico, come cercheremo di mettere in luce.
Come si accennava, questi peccati hanno perso per lo più la loro caratteristica di nefandezza.
Di fatto, oggi, i media ci elargiscono quotidianamente una nuova fattispecie di peccati o, potremmo dire, una nuova configurazione che deriva dall’assemblaggio dei classici peccati sopra ricordati.
Vedasi ad esempio la figura del mestatore di affari ovvero del faccendiere (termine coniato da Machiavelli ): una specie ad ampia riproduzione.
Ma i quotidiani e i media c’informano anche di crisi umanitarie in atto, e diffondono ogni giorno notizie e fotografie delle guerre note e misconosciute che – in ogni parte del mondo – mai cessano di replicarsi.
Anche alle violenze e alle atrocità siamo – considerando le reazioni collettive e prevalenti – così sembra, abituati .
Parlare di peccati, pertanto, è intento attuale perché significa richiamare l’opportunità di una riflessione sul sociale, dunque sull’uomo in relazione, in rapporto all’etica, all’estetica, alla moralità … e il pensiero torna all’antichissima battaglia della Sontag contro il filisteismo, la superficialità, l’indifferenza.
Una delle ipotesi che formuliamo è questa: può essere l’indifferenza – come opacità della sensibilità e della percezione – uno dei peccati gravi del nostro tempo?
Già di primo acchitto registriamo che nel comune sentire si assiste a una sorta di derubricazione di gravità dei tradizionali peccati sopra elencati. Nella realtà di oggi nessuno si sentirebbe più di attribuire un forte discredito sociale ai peccati di gola, di lussuria, di avarizia, di falsa testimonianza, (pensiamo solo all’evasione fiscale), di superbia, di accidia. Resta, è vero, l’esecrazione forte dell’omicidio, ma di frequente si ha l’impressione che anche questo peccato/reato non venga solo condannato in sé, ma sia anche l’occasione strumentale per parlare d’altro e raggiungere fini diversi: a livello dei mass media si tratteggia spesso, con tinte forti, il quadro socio–economico e si indugia nel voler reperire in quel sostrato la più parte delle motivazioni o spiegazioni, mentre non si cerca di indagare a fondo le motivazioni individuali e le cause prossime scatenanti dell’atto (pensiamo che, nella più parte dei casi di omicidio e di suicidio, si parla – genericamente e dunque impropriamente – di depressione; solo di recente per i casi di madri figlicide si è per così dire riscoperta, e riportata all’attenzione, la depressione post partum). In generale tale distorsione dell’informazione appare motivata da una convenienza politica (pensiamo agli omicidi di terrorismo e di mafia) e/o ideologica, talvolta influenzata da un diffuso perdonismo che paradossalmente e non di rado genera maggiore pietà per il colpevole/reo che per la vittima.
Perdonismo come altro peccato endemico del nostro tempo?
Questa è la seconda ipotesi: perdonismo come nuovo peccato che deriva dall’indifferenza sopra evidenziata.
Abstract
Quale attualità per il peccato?
Gli Autori si soffermano sul concetto di peccato, cercando di chiarire quale ne sia – oggi– l’attualità. Si delinea l’opportunità prioritaria di meglio delineare la fisionomia del peccato, anche distinguendola e differenziandola dal reato. Reato e peccato spesso hanno coinciso nello svolgersi temporale del sentire e del legiferare e, ancora oggi, non di rado, i due termini vengono usati in modo alternativo e non sempre congruo: viene pertanto abbozzato un quadro storico, seppur parziale e sintetico, che consenta di cogliere le trasformazioni anche epocali che hanno inciso sul sopradetto sentire. Si formula l’ipotesi che ci siano – nel nostro tempo – nuove forme di accidia, rintracciabili nell’indifferenza come opacità percettiva e nell’intorpidimento della sensibilità rispetto agli accadimenti del Mondo interiore ed esterno. Il perdonismo – come facilità al perdono indotta anche da stereotipi religiosi e sociali – può rappresentare una ulteriore fattispecie dell’attuale incapacità di andare oltre la superficie. Gli Autori auspicano la possibilità di una ritrovata e più piena sensibilità/percezione e accennano a una via percorribile per avvicinarsi a detta meta: la pausa, la riflessione, la domanda come accesso a strati profondi di Sé e dell’Altro.