in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 57 Roma, Di Renzo Editore, 2005 – Estratto
In uno dei suoi racconti più paradossali, “Saltare il fosso”, Philip Dick, famoso scrittore di fantascienza, narra le vicende di una persona nevrotica che non riuscendo a prendere una decisione su delle questioni molto importanti si reca dallo psicoanalista. Sembrerebbe una storia dei nostri giorni se non fosse che lo psicoanalista è un robot dello Stato che si anima con una monetina da inserire nell’apposita fessura e l’indecisione riguarda un problema che divide l’umanità, ormai sull’orlo della guerra civile, in due partiti, il partito dei “puristi” che vuole estirpare quegli apparati del corpo umano che provocano cattivi odori, e quello dei “naturalisti” che preferiscono che il loro corpo rimanga integro come è stato da sempre e non vogliono essere obbligati come affermano: “…al controllo dell’alito, allo sbiancamento dei denti e al trapianto dei capelli”.
Finalmente il protagonista decide e vota per il partito dei naturalisti che però perde le elezioni. Quando, ad un controllo, la polizia gli ingiunge di operarsi per togliere le ghiandole sudorifere, scappa e si rifugia dallo psicoanalista che si congratula con lui di aver finalmente fatto la sua scelta, anche se quella sbagliata, e gli dà un lasciapassare temporaneo per non essere arrestato. Uscendo dallo studio del terapeuta-robot, in un ultimo e decisivo desiderio di libertà e di autonomia, si riappropria della sua vita, anche se solo per morire, strappa il lasciapassare e si lascia prendere dagli agenti che lo eliminano congelandolo e gettando i suoi resti in una macchina distruggirifiuti.
Questo racconto, come molti altri sui robot di cui è ricca la letteratura di fantascienza, è emblematico di alcuni aspetti della condizione umana in cui convivono desideri ancestrali ed ambivalenti di vita eterna, celebrati dalla mitologia e dalle religioni, che l’umanità cerca di realizzare con i progressi delle biotecnologie e della robotica. L’aspirazione a raggiungere la perfezione e l’immortalità del corpo, senza preoccuparsi troppo per quella dell’anima, ha spinto l’uomo a costruire con materiali pressoché eterni meccanismi fatti a sua immagine e somiglianza e a trovare tecniche e farmaci che gli prolunghino la vita. Come fa notare Aldo Carotenuto la science fiction ha previsto tutti questi cambiamenti: “Si potrebbe addirittura dire che la fantascienza è una mappa dell’inconscio, attraverso la quale emergono gli archetipi della psiche moderna, la mitologia del terzo millennio”.
Nel racconto l’umanità è divisa tra chi vuole conservare l’integrità della specie umana e chi vuole un uomo nuovo che con la perdita di uno degli attributi che testimonia la nostra discendenza dagli animali, l’emissione di odori, possa arrivare più vicino a Dio e controllare così il tempo e la morte, ma diventa invece simile ad una macchina, pulita e ben lubrificata, ed imita quei robot che lui stesso costruisce e con cui inconsciamente si identifica. Il protagonista per l’indecisione perde fiducia in se stesso, si rende dipendente dalla macchina che lo consiglia e lo protegge ma con cui alla fine entra in conflitto. In un ultimo anelito di rivendicazione dell’umanità di cui fa parte e della propria individualità, fa la sua scelta, ma per morire, per diventare un rifiuto da scartare, come se la presa di coscienza conducesse inevitabilmente al disfacimento ed alla morte.
Il robot, l’automa, questo doppio su cui si proietta il tentativo disperato di trascendere la morte trasformandosi nella propria creazione, diventa fonte di angoscia e di spaesamento, ricorda l’unheimliche di Freud, il non familiare, il perturbante e porta con sé, secondo Otto Rank, un senso di morte, espressione del riconoscimento che il doppio siamo noi coinvolti in un rapporto narcisistico che si prolunga per tutta la vita.
Oggi si parla spesso di robot, cyborg, androidi e quant’altro. Siamo arrivati ad un intreccio indissolubile tra uomo creato ed uomo creatore, non solo nei film di fantascienza, ma anche in ambito scientifico e filosofico. La tecnologia sta realizzando meccanismi prodotti dall’uomo che formeranno uomini nuovi, macchine automatiche che rappresentano fantasmi generati dall’inconscio e per questo esercitano un grande fascino sull’immaginario collettivo, fin da quando l’uomo proiettò su un essere divino la causa prima della propria creazione.
Nel primo racconto della Genesi “Dio creò l’uomo a sua immagine, lo creò maschio e femmina”, riflesso fedele della bisessualità divina. Secondo alcuni miti Adamo ed Eva prima della caduta erano un androgino, poi il peccato li avrebbe definitivamente divisi. Anche il mito raccontato da Platone nel Simposio, forse ripreso dalla stessa fonte orfico-babilonese della Genesi, ci parla di un doppio, dapprima unito, ma poi separato dalla divinità per una presunta trasgressione e costretto a ricercare l’unità perduta per l’eternità. Nel quarto libro delle Metamorfosi Ovidio racconta la storia di un unico essere, Ermafrodito (da Ermes e Afrodite), poi diviso ed obbligato a ritrovare la propria unità. Da questi miti derivano tutte quelle leggende che parlano di un doppio e che si possono rintracciare nella mitologia e nella storia di ogni cultura, Gilgamesh, Narciso, Achille, il Golem, Faust, Frankenstein…
Nella letteratura, nel teatro, nel cinema spesso sono state usate delle macchine per produrre effetti spettacolari, imprevisti, come il “deus ex machina” della tragedia greca. La parola robot deriva dal ceco ròbota, lavoro, ed il primo robot viene usato da uno scrittore, Karel Capek, che nella rappresentazione dei suoi drammi del 1920, Rossum’s Universal Robots, usava degli artifizi meccanici, degli automi. Proprio nel ghetto di Praga nacque la leggenda, ripresa dall’Antico Testamento e dal Talmud, del rabbino Löw e della sua macchina d’argilla di aspetto umano, il Golem (termine che nella Bibbia ha il significato di cosa, corpo informe), capace di eseguire dei lavori, di obbedire agli ordini, ma anche di difendere il popolo ebraico contro i suoi nemici. Ma il Golem poi si ribella contro il suo artefice mettendo in luce la forza ambigua del mondo delle macchine che può sfuggire al controllo del creatore. Anche Paracelso nel Rinascimento si è ispirato agli scritti chassidici per descrivere la sua concezione della vita formata dalla materia inanimata, l’homunculus, fatto di acqua e terra, idea poi ripresa anche dal Faust di Goethe.