in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 13, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011 – Estratto
Malgrado la innegabile difficoltà di lettura dei suoi libri – ad eccezione della trascrizione dei Seminari – Bion (1897-1979) è riuscito ad introdurre nel linguaggio clinico numerosi neologismi. La sua sincera dedizione al rapporto fra paziente ed analista, la solida base kleiniana e al contempo l’originalità e il coraggio delle proprie intuizioni ha permesso all’autore indo-inglese di proporre con successo innovazioni di metodo e di lessico. Variamente riformulate, queste innovazioni costituiscono l’ossatura di gran parte dell’attuale pratica clinica.
Fra i termini più evocati vi è quello di reverie. Esso si presenta insaturo, polisemantico. Si espande cioè su diversi livelli di significato. In questo contributo se ne evidenziano in particolare tre: evolutivo, terapeutico e antropologico. Innanzitutto, secondo Bion, la reverie esprime la capacità dei caregivers – e in particolare della madre – di empatizzare con il neonato, con il bambino e con l’adolescente. Bion anticipa in questo modo i contributi etologici e sperimentali della teoria dell’attaccamento di Bowlby. E più ancora i temi cari alla “svolta relazionale”, che partendo da Sullivan e Fairbairn arrivano fino a Mitchell, Ferro e Ogden. In secondo luogo, la reverie è valorizzata come strumento clinico, attraverso il quale il terapeuta “sogna i sogni non sognati” del paziente (Ogden). In termini cognitivisti, la reverie diventa il dispositivo del pensiero, utile alla coppia terapeutica per mentalizzare il paziente e la sua sofferenza (Fonagy).
Infine la reverie – in seguito all’ipotesi dell’esistenza di “O” – fonda una nuova e rivoluzionaria proposta antropologica. Ontologica, secondo la dizione proposta da Grotstein. Analizzato, allievo e biografo di Bion, Grotstein introduce – sulla base di questa terza accezione del termine reverie – il costrutto di “posizione trascendente”. La posizione trascendente rappresenta il superamento ontologico della dicotomia kleiniana fra posizione schizoparanoide e posizione depressiva. Dal momento che “O” non si limita ad eruttare un magma incandescente di impulsi senza significato, l’obiettivo sanante dell’analisi non è più la tolleranza nei confronti delle pulsioni impersonali dell’inconscio. Attraverso il raggiungimento del terzo livello della reverie, l’obiettivo dell’analisi diventa la riscoperta delle emozioni come mediatrici della “verità personale sulla Realtà ultima”. Un processo individuativo guidato dal Sé che ha molte analogie con quello junghiano. E che, al pari delle ipotesi del maestro zurighese, ha trovato l’ostracismo del gruppo psicoanalitico più tradizionalista, fino al punto da convincere Bion ad emigrare in America. Seguito dal pettegolezzo di un suo lento scivolamento in una regressione mentale di natura psicotica.
I tre livelli della reverie proposti da Bion si espandono dunque su versanti evolutivi, clinici e antropologici. La tesi di questo contributo è che il concetto di sogno elaborato dalla psicoanalisi di stampo relazionale e quello di mentalizzazione, proposto con enfasi dalla psicologia post-cognitivista contemplano, con un linguaggio diverso, solo i primi due livelli. Evolutivo e clinico. Ma non “passano il Rubicone”, secondo l’espressione di Grotstein. Non dimostrano cioè interesse ad inoltrarsi nel terreno dell’ontologia. Solo la psicologia analitica sembra nutrirsi della stessa fiducia (o fede) nelle risorse dell’inconscio di quella che ha animato la psicologia post-freudiana di Bion.
Jung e Bion, insomma, si incontrano sulle vette del terzo livello di significato della reverie. Senza esser riusciti entrambi a sfuggire all’accusa di ‘misticismo.’
Abstract
Passare il Rubicone. L’O di Bion e il Sé di Jung come i luoghi psichici della divinità
Ogni psicoterapia è al contempo una teoria dello sviluppo, una pratica clinica e una antropologia. Ogni psicoterapia cioè si interessa della biografia del paziente e del suo malessere in relazione ad una – implicita o esplicita – visione dell’uomo. Chi nega questa premessa, già ne sta proponendo una. Ebbene, secondo la prospettiva del presente contributo si possono ricapitolare nel panorama psicoterapico quattro diverse disposizioni nei confronti della dimensione religiosa. Una venata di psicopatologia e di diffidenza, la seconda a carattere pastorale, la terza agnostica e la quarta naturaliter “religiosa”. Pericolosamente mistica, secondo i detrattori. La prima disposizione è stata varata dal padre stesso della psicoanalisi. Freud ha considerato l’inconscio come un vulcano di pulsioni, di natura libidica. La religione è la più pervasiva forma di sublimazione nevrotica collettiva di queste pulsioni. Ancora più chiaramente Melanie Klein ha posto l’istinto di morte alla base della vita psichica e ha definito il passaggio dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva come l’obiettivo sanante di ogni analisi. Come a dire che l’accettazione della innata autodistruttività è l’esperienza più alta con cui la coscienza è chiamata a confrontarsi. In conclusione, per entrambi i capostipiti della psicoanalisi l’analizzando deve sviluppare tolleranza di fronte alla mancanza di senso ultimo. Anzi deve serenamente abituarsi a convivere con le impersonali leggi dell’inconscio. Il secondo atteggiamento può essere identificato con l’opera e il pensiero di Pfister. Il quale preconizzava l’uso dello strumento psicoanalitico – e psicoterapico in generale – per depurare la falsa religiosità dalle acque stagnanti delle convenzioni e delle maschere sociali. La psicoterapia scopre il vero Sé sepolto dalle consuetudini per permettere lo snellimento e al contempo l’accettazione delle norme della propria tradizione religiosa, confessionalmente intesa. Alcuni autori della attuale psicoterapia post-cognitivista – ad esempio – si muovono su questa strada: il dispositivo scientifico della talking-cure viene posto al servizio di una pastorale più sana ed integrata. La terza disposizione – quella più diffusa – è agnostica. Essa è sintetizzata dagli autori e dai principi operativi del DSM, il Manuale Statistico e Diagnostico che proviene dall’America. La psiche è qualificata solo nella frammentazione del suo apparire. L’inconscio e le sue turbolenze non sono in relazione con nessun demone dell’anima. La quarta e ultima disposizione è rappresentata dagli autori che – secondo Grotstein – hanno avuto il coraggio di attraversare il Rubicone. Pur rimanendo saldamente ancorati alla dimensione empirica, essi hanno postulato la presenza nella psiche di una incoercibile Alterità. Un demiurgo che Jung ha documentato con i costrutti del Sé, dell’inconscio collettivo e degli archetipi. Sul versante freudiano – a venti anni di distanza – Wilfred Bion ha prodotto una modellistica quasi sovrapponibile a quella del maestro zurighese attraverso i costrutti di “O”, funzione alfa e pensieri selvaggi (o pensieri senza pensatore). Metateorie alle quali Grotstein ha aggiunto l’ipotesi operativa della “posizione trascendente”. La temerarietà della proposta dello psicoanalista indo-inglese è apparsa così radicale che egli è stato costretto ad emigrare negli Stati Uniti, accompagnato dall’accusa di essere diventato uno psicotico. Insinuazione simile a quella che Freud rivolse al suo ex pupillo. Che cosa significa in una psicoterapia essere disposti ad “attraversare il Rubicone”? Al fine della guarigione, quali caratteristiche questo guado comporta nella pratica clinica? E più ancora: quale rapporto – secondo questi autori – è utile sviluppare con le realtà ultime della psiche?