in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 8, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009 – Estratto
Neanche l’irruzione della psicologia cognitiva è riuscita a fornire il colpo di grazia al credo artistico della psicoterapia. Nata da autori come Beck e Ellis, profondamente delusi dalla inconsistenza, dalla asistematicità e dalla protervia della psicoanalisi, la prima prassi cognitiva -definita in seguito standard o razionalista- riduce la seduta ad un dettato. L’intervento del terapeuta ad un protocollo. E la guarigione ad un assimilamento di nuovi pensieri. Il malessere del paziente è individuato dalla presenza dei NAT, negative automatic thoughts, i pensieri automatici negativi. Insomma il soggetto sta male perché pensa male. Le sue idee disfunzionali in terapia vanno dunque colte con le tecniche adeguate e poi aggredite senza riserva. Tuttavia la psicologia comportamentale e quella del cognitivismo standard si fermano ad un livello superficiale di cambiamento che non esclude la ricomparsa del sintomo sotto altre forme. Il rischio di una tale esteriorità clinica è stato infatti stigmatizzato da Guidano in una lezione -da poco trascritta – con la famosa barzelletta dell’uomo che viene persuaso che egli non è un topo. Alla fine dell’insistente opera di convincimento, dice di sì. Ammette di non essere più un topo. Ma poi preoccupato chiede: ‘I gatti sono stati informati?’.
Al primo cognitivismo razionalista ne è seguito un secondo, detto costruttivista o post-razionalista. In realtà il processo è stato lento e tortuoso. E le denominazioni infinite. Ma in Italia il costruttivismo –nelle sue varie declinazioni- ha sviluppato una serie di teorie, tecniche e scuole che l’hanno resa all’avanguardia. In particolare a Roma. Grazie alla simultanea emersione di studiosi di forte personalità. E grazie -questa è una mia tesi- ad una collaterale influenza benefica della antropologia cattolica, in cerca di modellistiche non psicoanalitiche. In sintesi, il principale merito del costruttivismo è stato quello di aver recuperato all’agire psicoterapico due elementi vitali, che solo l’estremo empirismo americano aveva potuto negare. La centralità delle emozioni. E in secondo luogo la fondamentale valenza delle relazioni come palestra di confronto creativo fra paziente e terapeuta. L’alleanza terapeutica e il transfert, insomma.
I moderni ambiti di ricerca della psicologia cognitiva non standard possono –per comodità- essere divisi in tre aree. La prima area è straordinariamente importante, ma non estranea ad una classica sensibilità psicodinamica. Nuovo è solo il lessico e il contesto. Essa comprende il costrutto di ‘omplessità del Sé’ di Guidano . Il quale recupera alla attenzione della terapia cognitiva il ciclo di sviluppo del paziente e la sua organizzazione di significato personale. Tanto che lo psichiatra romano chiama in un primo momento sistemico-relazionale il suo approccio. Viene infine rivalorizzato l’uso clinico del materiale onirico. In particolare per l’iniziativa di due autori, Rezzonico e Liccione . L’analisi dei sogni si trasforma da via regia all’inconscio in un irrinunciabile reattivo per la comprensione della organizzazione di pensiero del paziente.
La seconda classe di costrutti appare in linea con le più moderne acquisizioni della psicologia dinamica. Mi riferisco in particolare alla concezione clinica di Liotti delle ‘emozioni di base’ e dei ‘sistemi motivazionali interpersonali innati’: attaccamento, accudimento, cooperazione, agonistico e sessuale. Non dissimili da quelli identificati da Lichtenberg , psicoanalista americano. Il quale ha elencato (e ben documentato) l’esistenza di cinque motivazioni fondamentali: regolazione di esigenze fisiologiche, attaccamento e affiliazione, esplorazione e assertività, antagonismo assertivo o ritiro, piacere ed eccitazione sessuale. Un ulteriore esempio di parallelismo è offerto dal costrutto relativo agli ‘schemi e cicli interpersonali’ di Semerari, con cui l’autore descrive le trappole coattive di comportamento in cui il soggetto è irretito, nel quadro specifico della sua patologia. Assai vicine -per intenti più che per risultato, in sincerità- all’Analisi Strutturale del Comportamento Sociale (SASB, Structural Analysis of Social Behavior). Modello elaborato dalla Benjamin, psichiatra relazionale americana, e favorevolmente accolto da numerose scuole cognitiviste nostrane.
Per concludere, una terza fascia di costrutti del neocognitivismo appare –perlomeno a chi scrive- davvero innovativa e di grande significato operativo. Mi riferisco in particolare al concetto di ‘metacognizione’, introdotto da Semerari e poi dallo stesso autore riformulato come metarappresentazione. Al di là dei nomi e di una certa confusione esplicativa, i processi metacognitivi comprendono tutte le attività di regolazione che il soggetto dispone sugli stati mentali. In particolare: il decentramento, cioè la capacità di leggere i propri stati mentali, distinguendoli dalla realtà esterna. La ‘differenziazione’, cioè la capacità empatica di comprendere gli stati mentali dell’altro inserendoli nel contesto in cui si svolge l’azione e nei ruoli specifici che sono stati attivati. Ma con una sensibilità acuita anche nei confronti dei valori, degli ideali collettivi e delle storie fondative concordemente avvallate da quel gruppo.
In terzo luogo la ‘mastery’, cioè la capacità di scegliere attivamente le soluzioni più adeguate al proprio obiettivo, in riferimento a ciò che il soggetto vuole per se stesso, per l’altro e per l’ambiente. E infine l’’integrazione’, cioè la abilità retorica per inserire i frammenti delle proprie esperienze mutative in una narrazione organica, flessibile e gratificante. Marsha Linehamm ha evocato una modellistica analoga nel suo straordinario trattato per il trattamento del disturbo borderline, secondo il metodo dialettico. In sintesi, differenziazione (in seguito useremo lo stesso termine con un altro significato), decentramento, mastery e integrazione sono le nuove bandiere del post-cognitivismo. Ma a ben guardare i suoi connotati per lo sviluppo della creatività clinica sono gli stessi di sempre.
Abstract
La psicologia del profondo -e quella di Carotenuto in particolare- hanno difeso ad oltranza il punto di vista creativo della psicoterapia. La vera dimensione creativa valorizza il piacere, l’equazione personale e la veridicità dell’intero processo psicoterapico. Ma una simile poetica sembra oggi un canto solitario. Nuove forme di sapere psicoterapico si sono presentate. Soprattutto con vesti di scientificità. Il dubbio è se anche in questi modelli così rigorosi, spesso ispirati alla nosografia del DSM, il terapeuta possa esprimere una modalità d’intervento artigianale, ‘artistico’, nell’accezione benevola che conferiamo a questo termine. E’ davvero possibile che la psicoterapia cognitiva costruttivista, unitamente alla sua vocazione statistica e sperimentale, conservi inalterata l’attenzione alle richieste del paziente? Nell’incasellamento nei flow-charts esiste ancora lo spazio per una relazione spontanea, genuina e terapeuticamente creativa? Oppure le numerose tecniche, i tests psicodiagnostici e l’aridità dei numeri hanno sostituito il gusto della relazione e il piacere condiviso della scoperta? Secondo il giudizio di questo contributo, lo spazio per l’autenticità dell’incontro terapeutico è rimasto. Non meno di prima, per chi lo sappia cogliere. L’uso della creatività nella psicoterapia si è modificato ma non perduto. E’ cambiato il suo vettore. Prima la creatività era ‘intuitiva dall’esterno’, oserei dire ideologica. Ne sono esempio l’uso universale del Complesso d’Edipo o la presenza degli Archetipi nell’Inconscio Collettivo. Adesso è ‘intuitiva dall’interno’, quasi gestaltica. Prima era rivelatrice di qualcos’altro dentro le forme consuete e manifeste, ora è riepilogativa del già noto, per una sua più plastica organizzazione. In questa abilità di creare ‘links’ fra gli elementi significativi del materiale clinico, risiede l’antica arte dello psicoterapeuta. In particolare consideriamo la lettura metaforica delle immagini e delle narrazioni del paziente e il percorso di differenziazione –Jung avrebbe detto individuazione- del paziente dal suo contesto come i due pilastri inamovibili della odierna psicoterapia, che a noi piace chiamare Dinamica Cognitiva. Metafora e differenziazione –cercheremo di dimostrarlo- rappresentano il legame, la salda continuità fra l’arte dell’agire psicodinamico e l’arte di un cognitivismo integrato. Il vero motore, probabilmente, di ogni analisi profonda e razionalmente condotta.