in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008 – Estratto
L’ottica del rovescio
‘Flectere si nequo Superos, Acheronte movebo’ . Così il maestro viennese–secondo la lezione di Virgilio– definisce l’orizzonte della psicoanalisi: un reflusso di acque torbide, agitate per piegare gli dei del cielo. Nella pratica, ciò equivale ad un interessamento ai fantasmi della psiche al fine di interpretare e trasformare le regole della coscienza, vissute come divieti. La psicoanalisi, insomma, considera la dimensione emotiva e istintuale dell’eros come la materia basica su cui operare, e la dimensione cognitiva del logos come una sovrastruttura, eventuale fonte di nevrosi.
Lo stesso termine ‘in-conscio’ è scelto per definire in negativo i confini della ricerca della psicologia del profondo, come uno spazio interdetto alla coscienza. L’inconscio –già nell’etimo– annuncia il primo, forte, no all’egemonia dell’Io.
Depurata dalle primitive eccedenze, noi chiamiamo questa eredità ‘ottica del rovescio’. L’‘ottica del rovescio’ –essenzialmente– presuppone che la realtà dell’individuo sia più ricca, interconnessa e ambivalente di quello che la luce della ragione riesce di volta in volta a rischiarare.
Di fronte all’enigma della sofferenza del paziente, il pensiero simbolico-narrativo della psicologia ha scelto la filiera degli affetti significativi piuttosto che il discernimento logico-concettuale della analisi filosofica. Le emozioni, in particolare quelle del passato, sono state evocate per giustificare il disagio del presente. E il trauma percepito è diventato la chiave per la riscrittura di una inedita biografia allargata. Nella quale vengono riepilogati e trovano una collocazione eloquente tutti i frammenti di vita fin a quel punto sparsi o nascosti o vergognosi.
L’‘ottica del rovescio’ indaga i motivi del sentimento della propria diversità. Il compito della terapia è trasformarlo in un linguaggio condiviso. La nevrosi è un marchio di nobiltà, è stato detto. È un anticipo sui tempi che verranno. È il dono di lacrima di una profezia che ancora gli altri non vedono. La psicoterapia ha il compito di rifornirlo di senso, per la costruzione di una identità più autentica.
Per esprimersi ‘alla Jung’ si può dire che l’ottica del rovescio è la scoperta della croce della propria unicità, come epicentro del processo individuativo.
L’‘ottica del rovescio’ è il regno delle ombre. La sua specificità è il ritrovamento del frammento di luce nel buio della caverna, la sosta fertile nella palude delle dimensioni negate. Nella psicoterapia attuale la retorica dell’‘abisso che redime’ è in disuso. Un retaggio del passato, a volte anche imbarazzante. Eppure la psicologia clinica non può che essere guidata da questo paradosso, da questa indimostrabile enantiodromia, in base alla quale la salute della psiche passa solo attraverso la disponibilità ad essere traghettati sull’altra riva.
Da questo punto di vista, la psicologia del profondo si è presentata come una visione del mondo a testa in giù. Chi l’ha polemicamente paragonata al sorgere di una religiosità, non ha sbagliato se per dimensione religiosa si intende il riferimento ad un paradigma valoriale pervasivo. Così come afferma Paul Tillich, quando spiega che ‘essere religioso vuol dire porre appassionatamente la domanda sul senso della nostra esistenza’ .
La psicologia del profondo ha offerto un nuovo credo ‘endopsichico’. Una nuova fede nel ‘fare anima’. E –attraverso le spericolate formulazioni ‘metapsicologiche’ della psicologia analitica– si è spinta anche più in là. Parafrasando le cosmogonie orientali e la versione gnostica del cristianesimo, essa ha istituito un lessico moderno per esprimere l’antica fiducia nell’‘unus mundus’. Un linguaggio adatto ai nostri tempi per ribadire l’unione fra il microcosmo psichico e il macrocosmo, in un incessante rimando di significati. Il Sé –non più luogo del rimosso ma centro dell’uomo e ‘imago dei’– è entrato nell’universo nascosto, pulsionale e primario della psiche, in qualità di rappresentante dell’Anima Mundi. L’emozione è diventata la voce dell’archetipo.
Mentre nel Cristianesimo ufficiale lo Spirito divino -fattosi carne- aveva trovato il suo riflesso, secondo le speculazioni tomiste, soprattutto nello spirito dell’uomo, cioè nell’intelligere e nel velle; ora la situazione è rovesciata. L’Anima Mundi –lo spiega con grande erudizione Hillman – è eletta a fondamento estetico della condotta, come avevano già teorizzato nel Rinascimento Marsilio Ficino e Vico. La differenza fra le due concezioni è evidente. Lì nel cristianesimo ufficiale -governato teologicamente dal logos- l’esercizio unilaterale dell’intelletto e della volontà come rappresentanti in massimo grado della parte ‘buona’ dell’individuo, fondano una ascesi dalle esigenze dell’eros. In cui il ‘contemptus mundi’ è strumento di crescita interiore e pegno per la ricompensa escatologica, alla fine dei tempi. Qui, nella versione animista della psicologia del profondo, l’unica salute è rappresentata dal processo di individuazione e dal coraggio di riconciliarsi con le dimensioni diaboliche. Le quali solo se addomesticate perdono la loro pericolosità e ridiventano feconde.
In conseguenza a questa premessa, la psicologia del profondo ha segnato anche il ribaltamento della vecchia morale. Proprio per la capacità di rovesciare gli ordini imposti, la psicologia del profondo è stata salutata –da Pfister fino a Neumann e ancora oggi con Frankl e soprattutto con Drewermann– come una nuova etica, più individuale e responsabile e meno ossequiosa e gregaria della precedente. Una etica che non si accontenta della norma comune, ma la riscrive in funzione soggettiva. Una etica che ripristina le istanze concrete dell’individuo al centro dell’agire, abbandonando ogni coercizione astratta. Una etica talora a rischio relativista e ripiegata su se stessa; ma sincera. Una etica fondata sui contenuti psichici, cioè sulle debolezze del singolo, ma anche sulle sue profonde risorse creative. Insomma una etica alla ‘Peter Pan’, nella accezione benevola del termine che Carotenuto gli aveva voluto assegnare.
Infine la metapsicologia della psicologia del profondo –oltre ad una visione intimista della religiosità e della morale ufficiale– ha proposto anche un ribaltamento dell’esercizio del pensiero. Tutte le manifestazioni strutturate del logos sono state interpretate -nella loro essenza- come meccanismi di difesa. Processi di sublimazione della pulsionalità negata. Un pregiudizio antico che la psicologia analitica di Jung è riuscita solo in parte a correggere, ma che la moderna psicoterapia ha integralmente rivisitato.
Si comprende allora il giudizio di Neri Pollastri –consulente filosofico e coordinatore insieme a Umberto Galimberti di una delle principali collane editoriali italiane sulla Pratica Filosofica– quando scrive che ‘l’assolutizzazione di tale modello (psicoanalitico) implica la pressoché totale esclusione della possibilità di forme di intervento sul piano della razionalità ’. Non si comprende invece quando estende questo giudizio anche alla psicoterapia attuale, la quale si muove su ben altre coordinate.
La psicoanalisi freudiana è la preistoria della psicoterapia. Mutatis mutandis, si può dire che la psicologia di Freud sta alla odierna psicoterapia, come la consulenza filosofica di Achenbach sta alla attuale consulenza filosofica. I padri fondatori servono per essere abbandonati. Ora che la stessa parola inconscio è diventata una parola scomoda -sostituita con ‘livello tacito’, ‘memoria implicita’ e ‘intelligenza procedurale’- dell’esperienza della psicologia del profondo non rimane altro che la grande eredità dell’’ottica del rovescio’. Il desiderio cioè di esplorare il fianco oscuro dei believes del paziente. Sia quando venivano chiamati -junghianamente- ‘complessi a tonalità affettiva’ sia quando vengono indicati –secondo la teoria dell’attaccamento- come ‘modelli operativi interni’, sia oggi quando sono identificati -dalla psicologia cognitiva post-razionalista- con le ‘organizzazioni di significato personale’.
I believes dei nostri giorni sono i Superos di ieri. L’inconscio e l’Acheronte della psicoanalisi sono gli schemi taciti della psicologia odierna. E non è solo una questione di nomi.
In conclusione, si può riassumere il nostro punto di partenza in questo modo: la psicoanalisi si reggeva su tre grandi pilastri. La primarietà dell’inconscio, la subordinazione della dimensione relazionale alle istanze libidiche e il pregiudizio riguardo all’esercizio autonomo del pensiero. Tutti e tre questi pilastri sono oggi franati. Nei prossimi capitoli cercheremo di illustrare i passaggi che hanno condotto al ribaltamento del vecchio paradigma terapeutico, passando da una psicoterapia dell’inconscio ad una psicoterapia della metacognizione.
Abstract
‘I giorni in cui la psicologia esercitava il suo potere stanno per finire’, sentenzia Gerd Achenbach nel 1981 all’interno del suo libro ‘La consulenza filosofica’, manifesto della nuova disciplina del dialogo. Da allora la bibliografia sull’argomento si è ampliata, prima in Europa e poi in America. In Europa – ad eccezione dell’Olanda dove ha preso i connotati di Business Philosophy – la consulenza filosofica ha mantenuto un tono più speculativo, con una velleitaria diffidenza a definirsi cura. Nel mondo anglosassone essa invece si è pragmaticamente arrogata il titolo di ultimo orizzonte della terapia del colloquio. La valenza curativa della consulenza filosofica è però una questione nominale, direi quasi ‘da filosofi’. Il disagio non è mai riducibile a malattia, il paziente non è l’etichetta di una categoria nosologica, gli schemi inadeguati del pensiero, del comportamento o dell’emotività di ciascuno sono superiori ai clusters psichiatrici che li definiscono. Chi si muove – appagato – in un paradigma unicamente medicale, non solo non fa consulenza filosofica ma non fa neanche una vera psicoterapia. Il radicalismo del linguaggio di Achenbach – dalla nostra prospettiva – pone un altro problema: a che punto è lo sviluppo della psicoterapia? E ancora: che cosa può apportare di innovativo alla prassi psicoterapica l’ausilio degli strumenti filosofici? Il presente contributo cerca una risposta a questi interrogativi. Il lavoro è suddiviso in quattro sezioni: nel primo capitolo è definito ‘ottica del rovescio’ lo specificum di tutta la psicologia clinica, a partire dalla lezione del maestro viennese fino alle psicologie cognitive di ultima generazione. L’ottica del rovescio è la curiosità di scorgere il retro delle cose e stimola l’avvicinamento al nucleo profondo dei propri beliefs, per farsi carico della loro ambiguità. Questa prospettiva endopsichica è irriducibile; è l’essenza del ‘fare anima’. Il secondo e il terzo capitolo riguardano lo stato dell’arte della psicoterapia odierna, nelle sue due coordinate: la dimensione relazionale e quella cognitiva. Il filo sottile che intreccia l’analisi logica delle ‘personali visioni del mondo’ da parte della consulenza filosofica con quella metacognitiva da parte della psicoterapia è riconosciuta e enfatizzata anche da importanti teorici della consulenza filosofica. Ma è il contributo di critica e di potenziale innovazione che la consulenza filosofica dichiara di apportare versus la psicoterapia, il principale interesse di questo articolo e il baricentro del quarto ed ultimo capitolo.