(con Simonetta Putti), in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 3, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006
L’esperienza
Per circostanze casuali ci siamo trovati a condividere per alcuni mesi lo studio professionale nel quale esercitiamo l’attività clinica.
La frequentazione più intensa e la vicinanza spaziale hanno favorito un più vivo scambio delle reciproche esperienze ed hanno attivato il desiderio di instaurare una attività didattica, a latere di quella clinica singolarmente svolta. Abbiamo così stabilito – nel medesimo luogo ove si svolgevano le sedute individuali – un setting didattico, delimitato in ore di giorni prefissati.
Esaminati i casi in corso di analisi, ne abbiamo scelto due che ci sembravano idonei alla inauguranda attività didattica per alcuni principali fattori: si trattava di casi adeguatamente recenti; i pazienti in questione presentavano un andamento regolare delle sedute; i tratti di personalità dei pazienti nonché la loro strutturazione psicopatologica ci stimolava interesse.
La narrazione alla seconda potenza
Abbiamo – ovviamente – salvaguardato l’anonimato dei pazienti prescelti, decidendo di chiamarli/trattarli con l’utilizzo della prima lettera del nome.
Abbiamo stabilito due incontri didattici a settimana, nei quali avviare e portare avanti l’esperienza di didattica, sapendo che l’esperienza in questione avrebbe avuto la durata di circa tre mesi.
Il metodo seguito è consistito nel racconto del caso attraverso tre tappe. Nella prima fase si tracciava la configurazione storica del caso, mettendo in luce aspetti quali: inviante, primo contatto con il paziente, sua immagine e postura, modalità di verbalizzazione prevalente. Siamo passati poi alla fase successiva, nella quale si è visualizzato il percorso fatto dal paziente dall’inizio dell’analisi sino alla disamina che andavamo avviando. Siamo transitati poi alla terza fase nella quale discutevamo – volta per volta – l’ultima seduta effettuata con il paziente prescelto.
In tutte le fasi sinteticamente accennate il materiale è stato presentato e trasmesso attraverso il racconto. Valutando che, nello svolgersi della seduta individuale, il paziente ci fornisce la sua soggettiva narrazione, ci siamo trovati, nella fase didattica, a ‘raccontarci un racconto’. Narrazione che quindi potremmo chiamare: ‘narrazione alla seconda potenza’.
Abstract
Questo articolo tratta del caso di Z., come è emerso durante una esperienza didattica di alcuni mesi. Z. è un uomo di circa 30 anni, affetto da un forte complesso paterno. La caratteristica peculiare di Z. è una imponente produzione narrativa e interpretativa, che abbiamo definito come iperinsight. Il racconto di Z. si caratterizza per l’abbondanza degli elementi descrittivi-analitici, privi del loro correlato emozionale, ai quali non segue mai una decisione reale di cambiamento. Il confronto fra didatta e terapeuta si dipana alla ricerca degli strumenti più adatti per scardinare la‘stasi narratologica’ di Z.