L’immaginazione originaria del poeta

L’immaginazione originaria del poeta, in Testa, F. (a cura di), Il volo dell’angelo. Pensare per immagini, Bonanno. 2011

Nell’ottica di Coleridge, però, quale Immaginazione fa l’analista? O, forse meglio, quale Immaginazione si fa, avviene in analisi? Il poeta inglese distingue una Immaginazione Primaria da una Immaginazione Secondaria . Per Immaginazione Primaria Coleridge intende la facoltà ricettiva, propria degli esseri umani in quanto tali (ecco perché primaria), che ci consente di percepire l’identità degli enti, l’infinito io sono degli enti, l’esser uno, l’essere identico a se stesso di ogni ente. Non è di questo ovviamente che si tratta nell’Immaginazione poetica. Questa identità, in effetti, non appartiene al poeta in quanto poeta, perché il poeta in quanto tale, come rivendicava Keats, semplicemente (e molto agonicamente) non ha identità. Di qui la sua prossimità alla follia, una prossimità localmente insistente. Di qui, anche, la prossimità all’analogia patologica dello stato mentale nominato da Bion come pazienza. Proprio a partire da quel luogo, dalla sua insistenza, possiamo comprendere l’originarietà dell’opera d’arte. Ciò in qualche modo richiamerebbe la tesi secondo cui la follia in certi casi favorirebbe la nascita dell’attività creatrice. Non casualmente Jung ha potuto pensare alla sua tecnica dell’immaginazione attiva come a una “psicosi anticipata” . Ma appunto qui sta il discrimine, nel caso di Bion come in quello di Jung (e in quelli, analoghi, di Coleridge e Keats), nell’anticipazione. Ernst Kris ha parlato con altro, parzialmente comparabile, linguaggio di regressione al servizio dell’Io. Per quella regressione Coleridge, dal momento che i poeti precedono gli psicologi, aveva già trovato altre parole. Dovendo, in una certa occasione, spiegare la differenza tra Fancy (fantasia) e Imagination, il poeta romantico ebbe modo di equiparare la prima al delirio (delirium) e la seconda alla follia (madness) .

Nel momento in cui non vale più l’identità “1=1”, nel momento in cui acconsentiamo a questa temporanea follia, a questa anticipazione di una psicosi o della posizione schizo-paranoide, nel momento in cui l’infinito io sono degli enti è trasceso, si accede ai regni dell’espansione (“1=n”) o della compressione (“n=1”), si accede ai luoghi, chiamiamoli così, dell’Immaginazione Secondaria. Non casualmente, ancora, Keats parlava di dilatazione dell’esperienza. E, però, quella dilatazione è a suo modo voluta dal poeta. Così almeno si esprime Coleridge quando si tratta di definire ciò che manca ai (suoi) lettori (noi epigoni diremmo: ai suoi pazienti) per entrare in contatto con la (sua) poesia, ciò che manca ai loro occhi per trascendere la patina di familiarità, per attraversare il velo di familiarità (come lo chiama Shelley) che ne ottunde la visione. Ciò che manca è la fede poetica. Il passaggio dall’Immaginazione Primaria all’Immaginazione Secondaria è segnato dalla volontà del poeta di sospendere l’incredulità. Tale sospensione comporta che l’equazione “1=1” dettata dall’Immaginazione Primaria non sia l’unica equazione possibile. Tale sospensione significa anche che l’immaginazione non ha bisogno di verità. Lo aveva già espresso alla perfezione anche Giordano Bruno nel De vinculis in genere, che è un compiuto trattato sul transfert, là dove sosteneva che potest enim imaginatio sine veritate vincire . L’immaginazione vincola, fa transfert cioè, a prescindere dalla verità.

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Giorgio Antonelli