in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 5, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto
In una lettera inviata a Bill Wilson, l’ideatore del “Programma dei Dodici Passi”, Jung, nel 1961, scriveva: “In latino alcol si dice “spiritus”. La stessa parola, dunque, viene usata per la più elevata esperienza religiosa e per il più corruttore dei veleni. Una formula utile quindi è: Spiritus contra spiritum”. Jung mette in relazione la sete dell’alcolista per l’alcol con un più profondo anelito dell’anima: il desiderio struggente di ogni essere umano di conoscere la sua vera identità, di trascendere i propri confini, unirsi con Dio e raggiungere la totalità. Questa immensa nostalgia, la sete dell’anima per qualcosa di indefinibile descritta nei versi poetici o nella letteratura spirituale è l’impulso verso il contatto con la dimensione più profonda di se stessi e un moto evolutivo verso una coscienza più ampia e più completa. Quest’impulso, quando non ascoltato, può trasformarsi nei più svariati “sintomi” che vanno da un diffuso “mal di vivere” e dalla perdita del senso della vita fino alle sue estreme manifestazioni come le varie forme di dipendenze da sostanze.
Un sintomo quindi che esprime una disperata richiesta di un percorso interiore verso dimensioni più animiche e spirituali, un bisogno impellente di iniziare una relazione con la fonte interiore, base e conferma del significato dell’esistenza e di libertà dai nostri “io” separati. La non soddisfazione di questa necessità viene definita dalla tradizione: “inferno”. Il percorso spirituale potrebbe rivelarsi quindi un potente antidoto non solo alla devastazione dell’alcol ma anche ad altre forme di dipendenze da sostanze, relazioni, gioco d’azzardo, cibo, potere etc…
Il primo contatto con l’alcol o con ciò che si trasformerà nell’oggetto della propria dipendenza viene spesso descritto da chi fa uso di queste sostanze come una specie di “colpo di fulmine”, un “barlume di assoluto”, come il ritrovamento di qualcosa che si era sempre cercato e la sensazione di trovarsi “finalmente a casa”. Tutti noi conosciamo quel “sentirsi potenziati”, il senso di sconfinamento e libertà tipico dello stato di ebbrezza, che risulta molto ridimensionato e “impoverito” quando si è sobri. A volte il primo contatto con l’alcol o altro “oggetto di dipendenza” viene vissuto come un momento di espansione infinita, una vera e propria esperienza “pseudomistica”.
Secondo le nostre antiche tradizioni spirituali la separazione dal nostro “Sé profondo” (la nostra natura divina) è il nostro “peccato originale”, la ferita esistenziale che può lentamente trasformarsi in un “dolore senza nome”, una sete insaziabile di infinito, l’impulso verso un abbraccio totale all’esistenza, qualcosa come un’esperienza non ben definita di unità e di libertà. In molti suoi scritti Jung descrive questo struggente desiderio che ci travaglia e vede in questa sete di totalità l’elemento propulsivo del processo di individuazione, la forza dinamica che tende a unire l’io e l’inconscio.
Abstract
La medusa che “tramuta in pietra” chiunque la guardi è una immagine eloquente del potere paralizzante della droga che tutto irretisce e trattiene e che il sognatore cerca disperatamente di combattere e distruggere. La potenza minacciosa del mondo interiore emotivo del sognatore, il suo mondo femminile attivato dalla sostanza, viene rappresentato dalla testa della strega, con i capelli serpenti, che nel sogno si ricongiunge al resto del corpo. Un femminile scisso e divenuto malefico proprio come la Gorgone, la cui chioma fu trasformata in orride serpi, e i denti in zanne minacciose. Quando siamo identificati con il nostro io biografico, la vita ci appare terribilmente arida e vuota, priva di significato e di contatto con i valori e principi universali. Il sintomo diventa allora la risposta naturale al fallimento del progetto esistenziale incentrato sull’ego, sulla “separatezza”. L’approccio psicologico transpersonale che affonda le sue radici nel modello umanistico, focalizza l’attenzione in modo particolare sulla fragilità e sull’insignificanza dell’esistenza umana derivate dalla separazione dell’io dal “Sé”, il centro spirituale interiore che trascende l’individuo. Le esperienze di trascendenza dei confini spazio-tempo vissute durante gli stati olotropici portano alla disindentificazione con il corpo, acquisizione indispensabile e tappa fondamentale di ogni percorso spirituale. Questa nuova percezione di se stessi, che in realtà è un superamento del “limite”, trascina con sé un profondo senso di libertà e la consapevolezza (emotiva, non razionale) di un se stesso non più dentro ai confini della propria pelle, non più “separato”, un se stesso che va oltre i ruoli abituali e abbraccia la totalità dell’esistenza. Un se stesso, forse per la prima volta “intero” e allo stesso tempo, paradossalmente, “oltre i confini”. Questo tipo di esperienza produce in chi la vive un effetto di “rivelazione”, è spesso carica di “numinosità” e di sacralità, ed è forse uno dei momenti più trasformativi del percorso interiore. Una volta elaborata e integrata nella personalità totale, rimane uno di quei momenti rispetto al quale possiamo davvero affermare di “non essere più gli stessi”, o di essere “inspiegabilmente nuovi”. La “verità” che scaturisce da questa nuova consapevolezza è profondamente “ecologica”, tale da poter parlare della nascita di un nuovo modo di essere “umani”: un essere umano che possiamo definire “biodegradabile”. L’esperienza della trascendenza dei confini spazio/temporali è portatrice di consapevolezza e di significato e rende la persona maggiormente in grado di armonizzarsi con la natura e con i propri simili e di assumersi il proprio compito esistenziale in quanto, una volta “scioltasi”, trascesi i confini, la persona sa e sente di appartenere alla Totalità.