L’arte del “ben peccare” Peccato, senso di colpa, giustificazione e psiche

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 11, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto

La psicoterapia lavora allo sviluppo di un individuo, quanto più possibile, consapevole e autonomo. L’obiettivo è identificare gli schemi disadattivi del paziente per costruirne insieme di alternativi. Più creativi, flessibili e differenziati.

La psicoterapia è per sua natura destinata a scardinare le regole.

A motivo della sua funzione eversiva la psicoterapia può essere provocatoriamente definita come l’arte del “ben peccare”. A quali divieti il paziente deve contravvenire per ritrovare se stesso? A causa dell’infrazione di quali norme –reali o immaginarie– egli sente il peso intrascinabile del rimorso? E quali sono invece i limiti che l’analizzando non dovrebbe varcare? All’interno del setting le risposte emergono almeno da tre differenti livelli di ricerca. Uno psicodinamico, uno culturale e un altro cognitivo.

In questo contributo ci soffermiamo sulla necessità clinica di coordinare l’indagine su tutte e tre le aree di intervento.

Più in dettaglio. È vero: il senso di colpa è un’emozione strettamente legata allo stile di attaccamento che l’individuo ha elaborato nell’infanzia. Sia all’interno della sua famiglia di origine che durante il rapporto con i care-givers. Psicodinamicamente la psicoterapia è l’esplorazione della “terra del rimorso”, per la comprensione dei modelli operativi interni del paziente. La cura si pone lo scopo di ‘tarare’ quei modelli con le esigenze più attuali e profonde dell’anima. Alcuni autori hanno cercato di dimostrare che ogni patologia è un “dono d’amore” verso la propria figura di riferimento, interiorizzata. È cioè la prosecuzione del senso di colpa per non essere diventati esattamente come l’altro ci voleva.

Ma il senso di colpa è anche un’emozione sociale. Al posto della cultura della vergogna dell’Oriente alcuni storici –fra i quali Delumeau– hanno sapientemente documentato lo sviluppo della cultura della colpa in Occidente. La teologia cattolica –è impossibile evitarne il confronto– ne è stata fautrice.

A partire dall’età dei lumi i peccati capitali del Magistero sono stati rinominati con un linguaggio psicopatologico. Il vizio è diventato malattia. Da allora non c’è stato più bisogno della ammissione della colpa, del pentimento e della riparazione. La tecnica psicoterapica li ha sostituiti con due percorsi alternativi: l’abreazione del senso di colpa o il suo attraversamento. Nel primo intervento l’antica fede nella grazia divina è spostata nelle risorse autoriparatrici dell’Io. Nel secondo: nelle risorse dell’inconscio.

La nascita della psicologia coincide –non si può negarlo– con il sovvertimento dei valori eteronomi della cultura occidentale, a favore di una nuova morale endopsichica. Una sezione di questo contributo è dedicata agli elementi di discontinuità durante il passaggio dalla cultura del peccato alla cultura dell’individuazione.

Tuttavia l’avvicinamento al tema del peccato richiede alla attuale psicoterapia un ultimo, fondamentale salto di livello. Nella sua determinazione a difendere il punto di vista relativo del soggetto, la cura della psiche ha finito per identificare il peccato con il senso di colpa. E lo ha così eliminato, perfino dal vocabolario. Nell’azione del peccare c’è al contrario un ordine –religioso, metafisico, esistenziale o ontologico– che viene infranto.

Buber, riedito da Galimberti e dagli epigoni della consulenza filosofica, ne hanno argomentato la consistenza. Solo recuperando il basamento dell’atto colpevole, cioè la sua tragicità nei confronti dell’altro-da-noi, si evita alla terapia di perdersi nelle sabbie mobili del giustificazionismo.

In termini cognitivisti può essere chiamata post-razionalista l’indagine clinica sui core believes, le credenze fondamentali, le metacognizioni del paziente relative al peccato. Terapeuta e paziente devono continuamente lavorare su due fronti: ritrovare le radici della propria emotività e ridefinire i contenuti del proprio pensiero.

In conclusione, la nostra tesi è che –per continuare a svolgere la sua azione risvegliante– l’arte del ‘ben peccare’ debba ampliare gli orizzonti dell’intervento. Deve cioè affidarsi ad un modello di psiche più completo, interconnesso e moderno, che in questa sede definiamo ad indirizzo dinamico-cognitivo.

Abstract

L’arte del “ben peccare”. Peccato, senso di colpa, giustificazione e psiche

Per la sua innata funzione eversiva la psicoterapia può essere provocatoriamente definita come l’arte del “ben peccare”. A quali regole il paziente deve contravvenire per ritrovare se stesso? A causa dell’infrazione di quali divieti –reali o immaginari– egli sente il peso intrascinabile della colpa? E quali sono invece i limiti che non è augurabile che l’analizzando varchi? All’interno del setting le risposte emergono almeno da tre differenti livelli. Un psicodinamico, uno culturale e un altro cognitivo. È vero. Il senso di colpa è una emozione strettamente legata allo stile di attaccamento che l’individuo ha elaborato nell’infanzia, all’interno della sua famiglia di origine. Ma il senso di colpa è anche un’emozione che si manifesta in ossequio alle aspettative del proprio tempo. Al posto della cultura della vergogna dell’oriente, alcuni storici –come Delumeau– hanno sapientemente documentato lo sviluppo della cultura della colpa in occidente. La teologia cattolica –è impossibile evitarne il confronto– ne è stata fautrice. L’uomo possiede una ‘natura lapsa’ per una faccenda originaria di mele. E il peccato viene considerato “una parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge eterna”. In base a questi postulati, il Magistero ha tradizionalmente descritto sette vizi capitali, di corruzione del rapporto fra l’uomo, i suoi simili e il Creatore. Tuttavia l’avvicinamento clinico al tema del peccato richiede alla psicoterapia un ultimo, fondamentale salto di livello. Nel peccato c’è un ordine –religioso, metafisico, esistenziale o ontologico– che viene infranto. Buber, riedito da Galimberti e dagli epigoni della consulenza filosofica, ne hanno argomentato la consistenza. Solo recuperando il fondamento dell’atto colpevole, cioè la sua tragicità nei confronti dell’altro-da-noi, si evita alla terapia di perdersi nelle sabbie mobili del giustificazionismo. Noi chiamiamo post-razionalista questa indagine cognitiva sui “core believes”, le credenze di base, le metacognizioni del paziente relative al peccare. La tesi del nostro contributo è che l’arte del “ben peccare” per continuare a svolgere la sua azione risvegliante debba entrare in dialogo sia con la dimensione emotiva che con quella cognitiva, valoriale, direi quasi etica, dell’individuo. Deve cioè affidarsi ad un modello di psiche più completo e moderno, che in questa sede definiamo ad indirizzo dinamico-cognitivo.

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Antonio Dorella