Lapsus di psicologi, in Rivista di Psicologia Analitica, 47, Roma, Astrolabio, 1993
Di Paul Federn non si dice molto nelle cronache psicoanalitiche. Eppure il ruolo da lui svolto nella storia della psicologia non è di poco conto. Fu vicepresidente della Società Psicoanalitica di Vienna dal 1924 fino al suo scioglimento nel 1938. Collaborò con Freud per 35 anni ed ebbe con lui un fitto scambio epistolare. Ernst Federn, figlio di Paul e anch’egli psicoanalista, dice di possedere circa cento lettere. E in una di esse Freud esprimeva il desiderio che Federn gli succedesse. Coniò il termine “Mortido” (l’esatto corrispettivo di Libido) per indicare quella pulsione di morte sulla cui esistenza e realtà, a differenza di molti altri suoi colleghi, egli credeva fermamente.
Analizzò, tra gli altri, Wilhelm Reich, Angel Garma ed Edoardo Weiss. Concentrò per tempo la propria attenzione sulla “psicologia dell’Io”, anzi sulla “psicologia fenomenologica dell’Io”, anticipando per più d’un motivo l’indirizzo successivamente rappresentato da Hartmann, Kris e Loewenstein. Fu un pioniere nel campo delle psicosi e assertore dell’importanza della figura materna nel trattamento psicoanalitico dei pazienti psicotici.
Si sa inoltre del suo contrasto con Reich che lo accusava, come appare dalla sua intervista con Eissler, di avergli sobillato contro Freud. Ora, la letteratura del pettegolezzo relativa a Reich potrebbe da sola formare un corposo capitolo della storia del movimento psicoanalitico. Fenichel, ad esempio, d’accordo con Federn, diceva che Reich era uno schizofrenico. E si tratta d’una pratica denigratoria alquanto diffusa se si pensa, ad esempio, al trattamento riservato da Ernest Jones a Ferenczi, che fu suo analista, e a Otto Rank. Pratica cui diede il la lo stesso Freud il quale diceva di Jung che era un folle (Jung lo ricambiava chiamandolo nevrotico) e di Adler che era un paranoico. Sembra inoltre che si debba ancora a Fenichel la diffusione della voce secondo cui Reich seduceva tutte le sue pazienti. Reich, dal canto suo, ricambiava generosamente asserendo che gli psicoanalisti erano genitalmente disturbati, ipocriti e masturbavano le pazienti durante le sedute. Ed è a una sessualità non vissuta che Reich riconduceva la malattia mortale di Freud.
Se l’accusa di Reich nei confronti di Federn corrisponde al vero, appare tanto più interessante constatare come egli, nella intervista sopra citata, ometta di dire che Federn fu suo analista e mentore. Un lapsus? Del resto, nella stessa intervista, Reich ha modo di ricordare che Federn commise suicidio, ma senza aggiungere che lo fece per evitare l’agonia procuratagli da un cancro di cui soffriva.
Federn era famoso, nell’ambiente psicoanalitico viennese, per i suoi lapsus linguae e atti mancati. “Ho un paziente, un caso eccellente per lei, ma l’ho mandato a un altro” disse una volta a Richard Sterba. Lo stesso Sterba racconta come, in occasione d’una spiegazione di alcune sue idee relative alla nozione di Io, Federn, nel rivolgersi ai suoi ascoltatori, pronunciasse la frase “Habe ich mich verstanden?” (Mi sono capito?) in luogo di “Haben Sie mich verstanden?” (Mi avete capito?). Sterba spiega come il lapsus tradisca la consapevolezza che Federn ebbe d’una certa mancanza di chiarezza del suo pensiero.
Più in generale l’attitudine di Federn ai lapsus linguae viene legata ad una sua profonda ambivalenza. In una lettera indirizzata a Sterba, poco prima di suicidarsi, Federn scrisse che, col passare degli anni e giunto a tarda età, aveva sperato di superare la sua inclinazione per gli atti mancati. Il che è tanto più significativo se si pensa che in una conferenza del 1933 sull’investimento dell’Io negli atti mancati Federn sosteneva che alla base degli atti mancati operava un meccanismo psicotico.
L’atto mancato era insomma, per Federn, una brevissima, improvvisa psicosi. E in cosa consisterebbe tale fulminea psicosi? Il lapsus, si potrebbe rispondere, tradisce, dunque consegna chi lo commette a una sua verità altra, una verità che si dice altra perché posta in un altrove, perché non riconosciuta dalla coscienza. Diciamo anche che il lapsus consegna a un racconto altro e che risiede forse nelle ragioni del racconto il suo effettivo comprendere chi lo commette, il suo tenerlo come in un abbraccio.
Si prenda ad esempio il lapsus di un altro dei pionieri della psicoanalisi di cui si parla molto poco, Hermann Nunberg. Nel corso di un seminario da lui tenuto nella sua abitazione Nunberg, parlando di successi e insuccessi terapeutici, pronunciò la frase “Wenn die Mißhandlung gelingt” (= quando il maltrattamento riesce) invece di “Wenn die Behandlung mißlingt” (= quando il trattamento fallisce). Il lapsus sembrerebbe testimoniare, almeno secondo Sterba che l’ha registrato, una certa qual tendenza sadica da parte di Nunberg. Per altri versi noi possiamo registrare il sovrapporsi e, anzi, l’imporsi, a ridosso d’un fallimento linguistico, d’un racconto riuscito. Perché un racconto riesca e, insomma, imponga la sua trama, si rende necessario un fallimento. L’atto mancato è in quest’ottica l’atto sommamente riuscito, ovvero riuscito oltre e contro le intenzioni di quell’Io che è soltanto una delle parti in gioco in questo gioco delle parti. Non diversamente Lacan, che giocava con le parole, intrecciando reti con le loro significanti assonanze e, dunque, dando anche a intendere di possedere la scena dei lapsus, sosteneva che il sintomo è un sant’uomo.
Il lapsus di Federn, dal canto suo, ci accompagna, letteralmente direi, all’interrogativo: nel lapsus chi comprende veramente? Io direi che nel lapsus siamo compresi e, insomma, abbracciati. E’ possibile per altri versi legare il lapsus di Federn alla sua elaborazione del concetto di “confini dell’Io”, nel senso che, ad esempio, il lapsus sembra non volerne sapere di questi confini. “In tutta la psicopatologia della vita quotidiana” scrive Federn “i compiti della vita reale vengono attraversati o contaminati da elementi inconsci.”
Nel lapsus, insomma, l’Io è attraversato e contaminato. Ciò equivale a dire che nel lapsus l’Io è abbracciato. E allora la domanda non suona più “chi ha capito veramente?”, ma: “da chi siamo abbracciati veramente”?, o anche: “chi gode veramente?”, “Chi sta veramente dispiegando il suo sapere?”. E se il lapsus è sintomo, chi è il santo? Dove accade la santità? Simili interrogativi potremmo anche essere tentati di porci se riferiamo l’essenza del lapsus a quella del vedere. Non diversamente dal lapsus il vedere significa un essere altrove, un essere anche altrove. Non diversamente dal lapsus il vedere significa appartenere a un altrove, a un altro discorso, al discorso di un altro, al discorso, forse, del santo di cui parla Lacan.
Nessuna esperienza conosce in modo così penetrante la divaricazione, la lontananza e, al tempo stesso, l’esser dentro e l’essere di un altro, come il vedere. E, poi, non sconfessa il lapsus l’assurda pretesa del voler vedere senza esser visti? Nel lapsus, come nel vedere, si tratta in fin dei conti del sapere, di cosa significhi sapere, di dove dimori il sapere. Di quale godere sia fatto il sapere.