L’anima di Giegerich. Un’introduzione assai illogica ma molto appassionata a What is Soul?

Giorgio Antonelli, L’anima di Giegerich. Un’introduzione assai illogica ma molto appassionata a What is Soul? di Wolfgang Giegerich, in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012

Nel 2012 Giegerich pone la domanda, dal sapore socratico, what is soul? Cos’è l’anima? Lo fa in un denso, quadripartito testo nel cui quarto finale si tratta di due opzioni definitive: iniziazione o emancipazione. La presa dell’anima non lascia mai Giegerich. Nei quattro volumi delle Collected English Papers tre sono espressamente intitolati all’anima. Nel secondo l’anima è messa a confronto con la tecnologia, nel terzo si tratta di soul-violence, nel quarto dell’anima che sempre pensa. L’anima è sepolta nella civiltà tecnologica, si è “auto-murata” nella caverna di Platone, viene messa a confronto com la televisione, col world wide web, ci si chiede che cosa significhi la sua profondità, diventa asse del mondo, è declinata nel suo movimento. Soprattutto ha una vita logica. Cioè negativa. Giegerich è l’Ockham della psicologia analitica, il suo rasoio è inflessibile. L’anima è la differenza assoluta. Quella che Lacan vuole per l’analisi e l’analista. L’anima di Giegerich è la vita logica dell’anima. L’anima direbbe Claudiano Mamerto, già ai suoi lontani, medievali tempi anticipando/riassumendo Giegerich, è inlocalis. Psicoinfierendo col suo ockhamico rasoio Giegerich crocifigge gli junghiani, che hanno agito la psicologia di Jung, denotando una completa mancanza di coscienza psicologica. La psicologia dal canto suo è un surrogato dell’anima. Dove era la sophia avviene la filosofia. Dove era l’anima avviene la psicologia, con la propria costitutiva nevrosi.

La psicologia, per Giegerich, non deve essere ambigua, deve essere precisa, deve sapere cosa fa. Non può lasciare le cose in sospeso (p. 78). Le verità dell’anima non vengono da e non sono mai state dentro (p. 117). Il tempo dell’anima è irrevocabilmente finito (pp. 327-8). Analogamente il mito si è fatto astratto. Proprio per questo se ne abusa, si moltiplicano gli enti, si duplicano i terrestri coi divini, pleonasticamente, but what it cannot be any more is myth.

L’anima è vita logica, ergo l’anima non è, non è ente, non è ontologia. Ci si deve dunque spostare dall’ontologia alla logica, dall’essere al non essere, Un monito per gli junghiani che, qualora (ancora) esistano, lo ignorano. Se l’anima è vita logica, richiede essenzialmente di essere pensata. L’emancipazione definitiva, in altri termini, è per noi epigonici moderni emancipazione dall’anima. Il télos è la terra, insomma. Questa terra soltanto. Senza mistificazioni. Cioè: senza duplicazioni, senza raddoppi mitologici. Un modo di revocare in dubbio la legittimità degli psicologi archetipici o presunti tali che evocano dèi in modo superfluo. Sembra di assistere qui a una riedizione delle dispute logiche tra filosofi scolastici medievali che si sono consumati su ante rem, in re, post rem e via, logicamente, dicendo. Entia non sunt multiplicanda. La moltiplicazione è mistificazione. Un affronto (logico) al pensiero. Il fatto è che lo stesso Jung non scrive a livello del pensiero, ma è in balia del suo saper sapientemente circumambulare con le immagini. Dal canto loro gli junghiani non ne hanno recepito il discorso sulla nevrosi (vedi l’insulsa, incoerente, illogica definizione che ne hanno dato tre illustri rappresentanti della psicologia analitica: Samuels, Shorter e Plaut) e non sanno bene come ci si debba comportare con l’amplificazione. Ignorano ad esempio che la sua radice è filologica. Impiegano linguaggio senza conoscere lo strumento impiegato.

L’anima non è un ente, ma un ent, il prefisso del toglimento, il prefisso della vita logica dell’anima. Lo stesso che impiegava Bultmann nella sua demitizzzazione del Nuovo Testamento. La polemica marzialmente ingaggiata da Giegerich con l’amico Hillman e la psicologia archetipica non è forse della stessa specie di quella che vide opposti Bultmann e Bonhoeffer? Bultmann voleva approdare al senso del Nuovo Testamento destratificandolo delle duplicazioni mitiche. Bultmann replicava che il mito era la cosa stessa. Cosa rinveniva in ultimo Bultmann, a destratificazione compiuta, quale senso ultimo del kerygma neotestamentario? La decisione. Dove approda Giegerich una volta disentificata l’anima e dunque dopo averla ent-ificata? Qualcosa di molto simile: la dignità. Diciamo anche: la dignità dell’irriducibilmente individuale. L’anima ente la possedeva l’uomo medievale, era la sua parte immortale, l’uomo moderno è la sua dignità. E, dunque, the time of soul is irrevocably over. Il “dentro” stesso è un’invenzione mi(s)tificante. Un’anima personale e la dignità umana non possono coesistere (p. 328).

Ritornando agli enciclopedisti, illuministi, a Kant, la dignità qui fa il paio con l’autonomia, il darsi da sé la legge. Ora, l’autonomia, il darsi da sé la legge, coincide con l’emancipazione dall’anima. L’autonomia, proclama Giegerich, è diventata ontologica. Ora, questo divenire ontologico ripropone l’ente che era stato fatto fuori. L’invenzione del terzo è cattiva mitologia, una mistificazione. Ma, Giegerich, l’invenzione non è forse qualcosa? Si ripropone qui, insomma, ancora, quel paradosso della coscienza di cui hanno fatto questione (e io con loro) Rank e Jung. Se reintroietto le mie proiezioni, il mondo sparisce, dal momento che il mondo è la mia rappresentazione, cioè la mia proiezione. Così Rank e Jung hanno ritradotto Schopenhauer. Bultmann, dal canto suo, demitizzando, ha aspirato al deserto. Appunto nel deserto io voglio incontrare Giegerich per parlare con lui, inlocaliter, di dignità umana.

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Giorgio Antonelli