in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 55, Roma, Di Renzo Editore, 2004 – Estratto
“Tu sei l’angelo dell’angolo della casa rotonda”, ripeteva il suo adorato papà. Parole queste che avevano il sapore di una promessa d’amore infinito, di un amore tanto grande quanto oscura e misteriosa risuonava dentro di lei questa solenne ed enigmatica dichiarazione. (Antonella, 41 anni) .
E dentro di me? Provavo verso queste parole un misto di attrazione e orrore, fascino e repulsione, percepivo il suo desiderio di fuggire da una soffocante prigione che appariva allo stesso tempo terribilmente attraente e riuscivo a sentire il suo dolore, un dolore che assomiglia a una lama tagliente nella linea del mio orizzonte, quel luogo dove cielo e terra si uniscono dentro di me. Quel luogo che so riconoscere nel mio corpo, è un abisso profondo all’altezza del diaframma, un luogo di confine: la parte superiore del corpo si identifica con la coscienza e con l’ego e la parte inferiore con l’inconscio. Nella mitologia il diaframma viene paragonato alla superficie della terra, sotto ci sono le regioni oscure, sotterranee, l’abitacolo delle forze sconosciute, delle passioni. È il luogo dove lo spirito viene infranto e il corpo spezzato. È il luogo del “Terrore”, dove nel corpo viene incarnata l’angoscia di “non esistere”, la solitudine estrema, la paura di non vivere e di “non essere nel mondo”.
Il “Terrore” sopraggiunge ogni volta che il bambino percepisce la freddezza dello sguardo, il tono di voce distaccato, spesso accompagnato da “vezzeggiamenti” e “parole d’amore”. Nel terrore, sostiene A. Lowen, “il sistema muscolare è paralizzato e rende impossibile qualsiasi forma di lotta o fuga”, è una forma di shock, una “fuga interiorizzata.” Quando una parola significativa come “amore”, lo dicono tante madri al loro bambino, non viene accompagnata da un volto ugualmente “amorevole”, ma da uno sguardo duro o indifferente, da un viso inespressivo, o ancora peggio da rabbia, rifiuto o da comportamenti che si oppongono, negano questa affermazione; quando quel che vediamo o ascoltiamo si oppone così dolorosamente a ciò che sentiamo e percepiamo ad un livello più profondo; ogni volta che il mondo interno si oppone a quello esterno, il bambino (ma anche l’adulto che ne è diventato) gela di Terrore e si trova dinanzi al dubbio amletico, ad uno dei più grandi dilemmi esistenziali: “Essere o non essere”, dilemma troppo grande per un bambino. Se lui scegliesse di “essere”, dovrebbe ammettere ed accettare di non essere amato ed un bambino non lo può fare, perché è minacciata la sua stessa esistenza, lui ha bisogno della mamma per sopravvivere. Accettando di “non essere” nega il suo corpo e tutte le sue sensazioni, nega il suo sentire, fa tacere la sua anima ma salva il rapporto con la mamma e può sopravvivere. Questo è un prezzo troppo alto per la sopravvivenza e ci ricorda altri dilemmi esistenziali, ci ricorda Faust e la sua anima venduta in favore di qualcosa che appartiene a questo mondo; ma un’anima non può essere scambiata per qualcosa di qualità diversa della sua e che appartiene ad una dimensione altra da sé. D’ora in poi il bambino conosce il “Terrore”, conosce la “Colpa” e tutto il suo essere trema per questo terrore, sa di aver tagliato i ponti dietro di sé e quindi di essere inaccessibile, d’ora in poi non può più amare, a rischio di precipitare nell’Abisso.
Aveva 8 anni, l’angelo dell’angolo della casa rotonda, quando studiò geometria a scuola e capì che “il rotondo” è privo di angoli. Oggi, quarantenne, ha gli occhi distanti e tristi che tradiscono l’immensa delusione e come una moderna “bella addormentata” aspetta il principe incantato e il bacio che la risveglierà.
Un dolore e una delusione questa, che conosco bene, l’ho vista stampata su tanti volti e mi fa pensare ad un urlo, un urlo bloccato, mai espresso e liberato, ma anche all’amore, un amore negato, divenuto freddo fino a congelarsi, pietrificarsi. La conseguenza disastrosa della perdita del primo amore, che nella maggior parte dei casi è l’amore materno, secondo Lowen, è la perdita del corpo; in assenza d’amore il corpo diventa una fonte di dolore. L’unità della personalità viene lacerata, creando una spaccatura tra pensiero e sentimento, ego e corpo, uomo e natura; l’Io e il cuore diventano due nuclei distinti: il fulcro del proprio sentire viene separato dalla consapevolezza di se stessi. Il bisogno di contatto diventa allora un tormento, una brama inappagabile e il bambino respinge il proprio corpo così come è stato respinto dal suo primo amore.
La forma più dolorosa di negazione dell’amore avviene attraverso una modalità perversamente sottile di comunicazione che va sotto il nome di “doppio legame” ed è una scoperta nel campo della psicologia di ampia portata che ha molto contribuito alla comprensione del comportamento umano e di svariate forme di disagio psichico. Nato da un progetto di ricerca condotto da Gregory Bateson e descritta per la prima volta nel famoso saggio “Verso una teoria della schizofrenia” il concetto di “doppio legame” ha gettato nuova luce sull’interpretazione dei rapporti interpersonali e dato origine ad una nuova concezione della psiche, della famiglia e della comunicazione umana, da cui scaturiscono teorie di estrema importanza per i problemi definiti “di natura psichiatrica” e per le relazioni umane in generale. Il concetto di “doppio legame” non può essere ignorato da chiunque lavori con l’animo umano, le sue sofferenze e difficoltà.
Nel “doppio legame” l’individuo è preso in una situazione in cui l’altra persona che partecipa alla relazione, con cui ha un coinvolgimento emotivo e che spesso è necessaria alla sua sopravvivenza, sta comunicando due ordini di messaggi in cui uno nega l’altro. È un po’ come trovarsi davanti ad un semaforo che segna contemporaneamente il rosso e il verde. Si rimane paralizzati. Dinanzi a questa forma di comunicazione, le reazioni possibili sono la rabbia, la fuga (che può essere fuga interiorizzata, nell’impossibilità di metterla in atto effettivamente), la metacomunicazione, cioè parlare ed esporre all’interlocutore l’incongruenza della comunicazione. Questa forma più evoluta di reazione avviene molto raramente in quanto presuppone un minimo di consapevolezza e indipendenza. La quarta forma di reazione è la “pazzia”.
Ingredienti indispensabili nelle situazioni di doppio legame sono la “mistificazione” e la “disconferma”. Così descrive R. D. Laing la mistificazione: “Mistificare in senso attivo significa confondere, annebbiare, oscurare, mascherare quello che sta succedendo, sia che si tratti di un’esperienza, di un’azione, di un processo, o di qualsiasi altra questione…si suggella la mistificazione mistificando l’atto di percezione della mistificazione per quello che è; ad esempio, attribuendo alla percezione della mistificazione un significato di malvagità o di follia.” . Nella “disconferma” ciò che viene negato implicitamente è l’“esistenza” dell’altro, attraverso la negazione della sua realtà interiore, delle sue sensazioni, sentimenti, percezioni. Diversamente dalla comunicazione “squalificante”, in cui il messaggio implicito è “tu non vali” ma comunque “esisti”, nella disconferma ciò che viene implicitamente comunicato è “tu non esisti”.
Mi sembra opportuno sottolineare come non solo chi la subisce, ma anche chi la mette in atto, questo tipo di comunicazione distorta, conosca a sua volta il “Terrore”, terrore che si tramanda di generazione in generazione, abbia a sua volta lo spirito spezzato ed il corpo congelato, abbia paura di amare e di precipitare nell’Abisso.
“Il mio gioco preferito era far “suicidare” le bambole. Mettevo in atto svariate modalità che andavano dall’annegamento all’impiccagione, farle precipitare dal quinto piano dove abitavo e in alcuni casi persino la coltellata al cuore. Oggi non gioco più con le bambole ma mi diletto con le più sfrenate fantasie suicide…forse se mi suicidassi, qualcuno si accorgerebbe che esisto.” (Carla, 38 anni)
Secondo Lowen, è dall’esperienza del terrore e dello “shock” che prova il bambino dinanzi al “rifiuto” del genitore, che scaturisce non solo la perdita del corpo ma anche della capacità di amare e viene spezzato il collegamento con il mondo interno e con il sé corporeo e di conseguenza anche il collegamento con il mondo esterno, con il flusso della vita, con gli altri esseri umani. Lowen parla di perdita della “grazia”, riferendosi a questa condizione di “corpo despiritualizzato”, separato dalla propria sorgente interiore, dalla propria anima da un abisso minaccioso e paralizzante. Scrive Lowen: “In teologia la grazia è definita: l’influenza divina che agisce nel cuore per rigenerarlo, santificarlo e conservarlo…La grazia è uno stato di santità, di pienezza, di legame con la vita, di unione con il divino. Come vedremo è anche uno stato di salute.”
Aldoux Huxley descrive tre forme di “grazia”: la grazia degli animali, che si esprime nella sensazione che cogliamo nel vederli liberi nella natura, la grazia umana, che si rispecchia nell’armonia con l’ambiente e con i propri simili e la grazia spirituale che si esprime nella sensazione di un legame con un ordine superiore. Nel concetto di grazia, anima e materia, spirito e carne, sono congiunti, in armonia. Secondo Lowen, lo spirito umano anela più di ogni altra cosa a ritrovare la sua grazia naturale, ad affrancarsi della prigione dell’Io, a sentirsi partecipe del flusso dell’universo.