in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 45, Napoli, Liguori, 1999 – Estratto
Il servo Sofferente è un personaggio (mitologico) le cui dolorose vicende sono sparsamente descritte in quattro carmi contenuti nei capitoli centrali del libro veterotestamentario di Isaia. Il servo è costretto ad una ingiusta sofferenza, sorprendentemente simile per violenza e modalità d’esecuzione a quella descritta nei Vangeli riguardo alla passione di Gesù. Solo in virtù di questa sacrificio di espiazione, Israele potrà finalmente uscire dalla schiavitù babilonese e costruire una nuova Gerusalemme. Il tema del sacrificio dell’Io al servizio di una maggiore completezza endopsichica, offre lo spunto nell’articolo a riflessioni sui benefici e sui rischi di questo meccanismo. Il quale può verificarsi in forma evolutiva, per esempio all’interno di un percorso analitico di superamento delle resistenze dell’Io, ma anche come blocco del desiderio in alcune mistiche del sacrificio, soprattutto di origine pseudoreligiosa.
I quattro carmi del Deuteroisaia raccontano la sofferenza del Servo di Yahwè . Gli Ebrei sono stati deportati a Babilonia, la città impura per antonomasia, di cui nulla si può toccare senza rimanere contaminati. Tutte le certezze del Servo di Yahwè sono crollate.
All’angoscia e alla rabbia di essere stato abbandonato dal proprio Dio subentra a poco a poco il vuoto della rassegnazione. La sua sofferenza gli appare immotivata e immeritata; il buio della sua anima senza prospettive di riscatto.
L’esegesi classica introduce il concetto di “personalità corporativa” per spiegare l’ambivalenza dei due significati fra cui la parola “servo” oscilla, con un moto quasi pendolare: singolo individuo e popolo di Israele. Un unico innocente è immolato a redenzione dei peccati di molti:
Egli fu trafitto per le nostre ribellioni,
schiacciato per i nostri crimini.
Cadde su di lui il castigo che ci risana
Con le sue cicatrici siamo stati generati
Una sofferenza umiliante e ingiusta. Sorprendentemente simile per violenza e modalità d’esecuzione a quella descritta nei Vangeli a riguardo della la passione di Gesù.
Costretto a presentare il dorso ai flagellatori e la guancia a coloro che gli strappano la barba, senza sottrarsi agli insulti e agli sputi , il servo sofferente, come un agnello condotto al mattatoio sopporta tutto, restando muto davanti ai suoi tosatori. E’ così sfigurato che non sembra più un uomo; la sua gente lo disprezza e lo evita.
Muore ed è sepolto fra i malfattori, pur non avendo egli commesso crimini; eppure la sua vita continua in una nuova dimensione di ampliata potenza e autorevolezza, identificata con il destino di Israele:
Mio servo tu sei, Isarele,
sul quale manifesterò la mia gloria
…
ti vedranno i re e si alzeranno;
i principi e si prostreranno.
In virtù di questo sacrificio di espiazione, Israele potrà finalmente uscire dalla schiavitù babilonese e costruire una nuova Gerusalemme. Reinterpretata in chiave psicologica la definizione di “personalità corporativa” si arricchisce di significati che –mi sembra- rendono ancora più chiara e universale la figura storica e contraddittoria del servo sofferente. “Personalità corporativa” smette di essere un argometo di esegesi letteraria e diventa una categoria ermeneutica intimista, diventa cioè la definizione dell’omeostasi fra le singole componenti della psiche.
Solo quando accettiamo la morte di una parte di noi, anzi della parte che la coscienza considera la più pura ed innocente, mansueti di fronte alle brutalità e agli sberleffi del nostro ego, solo quando accettiamo la vergogna di una definitiva sepoltura fra i malfattori, possiamo allargare la nostra personalità e di nuovo vestirci di gloria.