La revisione continua

Recensione a Merton Gill, Psicoanalisi in transizione, 1994, Milano, Raffaello Cortina, 1996

Freud, sì o no?

La psicoanalisi è estinta. defunta, un grande bluff, così come pretendono i suoi principali detrattori, i filosofi della scienza Popper e Grumbaum, che non vi scorgono alcun metodo attendibile di indagine scientifica? Oppure la crisi della psicoanalisi è solo una modalità di transizione verso nuove e più evolute indagini dell’inconscio? L’esigenza sempreverde di ricerca interiore e di indagine dell’anima può ancora fidarsi dei postulati della prima psicologia freudiana, o il tempo e la volontà di rigore metodologico hanno definitivamente minato le pretese terapeutiche ed ermeneutiche, cioè di cura e di spiegazione, offerte dalla psicoanalisi?

Attorno alla Clinica Menninger di Topeka, sotto la guida di Rapaport, si sono raccolti a partire dagli anni ’70 i principali autori revisionisti, non ostili, alla psicoanalisi. Rapaport, George Klein, Schafer, Holt. Psicoanalisi in transizione (1994) è l’ultimo libro di uno dei più quotati e equilibrati autori che sono usciti da quella palestra per poi proporre una rielaborazione personale della teoria psicoanalitica. Merton Gill è morto ad ottant’anni l’anno stesso della pubblicazione del libro in America. Il testo è la summa di una lunga attività di clinico e il testamento teorico del suo percorso di riformulazione dei concetti psicoanalitici in seguito all’avvicinamento alle posizioni costruttiviste dell’allievo Hoffman.

Che cosa significa tutto questo? Qual è l’essenza della novità del passaggio da una psicologia classica mono-personale ad un moderna bi-personale? Perché la psicologia del deficit, di stampo relazionale, ha soppiantato quella freudiana, di tipo preferenzialmente conflittuale?

Il libro rende semplici anche le risposte più complesse. Con uno stile limpido, minimalista e autoironico, tipico di chi è ormai giunto ad una piena maturazione dei concetti che vuole esporre.

Il modello costruttivista offre lo stampo della revisione. Dove per “ermeneutica costruttivista” non si intende una posizione libertaria, in cui “tutto va bene”, indipendentemente dall’oggettività delle interpretazioni. Non è solo l’estetica della narrazione ad influenzare l’analisi. L’ermeneutica costruttivista è egualmente distante sia dalle certezze marmoree del positivismo che dal costruttivismo radicale, per cui non esiste alcuna realtà esterna. La psicoanalisi è costruttivista ed ermeneutica, così come tutte le altre branche della scienza, solo perché non può mai smettere di domandarsi se sta sbagliando.

Le due principali conseguenze operative della posizione di Gill si hanno nella riformulazione del concetto di transfert, che cessa di essere una distorsione operata dall’analizzando riguardo alla situazione analitica, per diventare il vettore primo della relazione fra paziente e terapeuta. Il campo di incontro e di scoperta delle reciproche affettività. Così come già intuito in nuce, ma non sviluppato, dalla definizione di Unobjectionable Positive Transfert, Transfert Agevolante, da parte di Freud.

La seconda conseguenza riguarda il concetto di neutralità. Molto si è scritto e dibattuto sulla bontà della traduzione del termine freudiano Indifferenz con quello di Strachey di astinenza. Certo è che fra le due estreme soluzioni: l’analista come specchio, chirurgo o cornetta del telefono che traduce i segnali elettrici del paziente in significanti, da una parte, e il “tutto fa brodo”, la collusione vischiosa fra paziente e analista, dall’altro, c’è la terza via costruttivista di Gill. In cui l’analista si fa pienamente carico di ciò che avviene fra lui e l’analizzando, cercando di rendersene consapevole al massimo grado.

E’ proprio in questa ricerca di una consapevolezza relazionale, che giace la vera e profonda differenza fra il polo supportivo della psicoterapia e quello interpretativo della psicoanalisi. Gill distingue due gruppi di criteri distintivi fra psicoanalisi e psicoterapia: i criteri estrinseci e l’unico, reale, criterio intrinseco. I criteri estrinseci sono dati dalla frequenza delle sedute: non più certo 6 volte come durante l’analisi di Anna O., ma nemmeno le 5 volte a settimane praticate dal primo Freud. Il quale arrivò a considerare sufficienti 3 sedute settimanali. La durata della seduta: nella odierna pratica psicoanalitica si aggira intorno ai 45 minuti. Di contro ad una seduta di Lacan, che si vantava di poterne ridurre il tempo – mantenendone l’efficacia- a soli 5 minuti. L’uso del divano, che Freud introduce forse in ossequio al suo passato di ipnoterapeuta. Con l’intento dichiarato di limitare lo sviluppo del transfert del paziente, il quale non guarda in faccia il suo analista, e di migliorare l’accesso al processo primario della fantasia. La precisione nel pagamento delle parcelle, la durata del trattamento e il training formale del terapeuta, cioè le analisi didattiche che Freud raccomandava ai suoi colleghi analisti ogni 5 anni.

Ebbene tutti questi criteri estrinseci, secondo Gill, non sono sufficienti a distinguere fra psicoterapia e terapia psicoanalitica, così come egli definisce l’allargamento della tecnica psicoanalitica al di là delle restrizioni formali. L’unico vero discrimine è l’analisi, quanto più approfondita possibile, del transfert. Cessata la fiducia meccanicistica di Freud di poter giungere, attraverso le libere associazioni e l’attenzione liberamente fluttuante, direttamente ai processi primari del paziente, l’odierna terapia psicoanalitica si deve servire delle due regole fondamentali con un atteggiamento più permissivo. Senza delegare dalla funzione mutativa dell’insight operata dall’interpretazione, che –ora, a differenza di prima- deve saper verificarsi all’interno di un contesto di contenimento per permettere la rielaborazione simbolica dei vissuti del paziente. Dove c’era l’uno, ora c’è il due.

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L'autore
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Antonio Dorella