Richard B.Makover, La pianificazione dei trattamenti in psicoterapia, LAS-Libreria Ateneo Salesiano, Roma, 1999
Esistono libri che fin dall’inizio si presentano con una identità precisa, un disegno chiaro da esporre, difendere e divulgare. Sono libri strutturalmente lineari, comprensibili, anche quando si dissente sul loro contenuto. Questo testo di Makover sulla pianificazione del trattamento per psicoterapeuti, è uno di quei libri.
Oltre alla semplicità espositiva, però, questo libro ha perlomeno altri due meriti. Il primo è rappresentato dallo sforzo di inserire la sua proposta teorica di pianificazione all’interno di casi clinici reali. Il secondo merito è di aver portato il focus dell’attenzione clinica su un tema -quello degli incontri preliminari per la formulazione del contratto terapeutico- generalmente lasciati alla sensibilità del singolo terapeuta, alla sua esperienza e ai dettami della scuola di appartenenza. Makover interpreta il momento dell’incontro iniziale fra paziente e terapeuta come un luogo di scelta multidisciplinare per quanto riguarda le tecniche e le strategie da adottare. Un percorso cioè che sappia avvalersi dei contributi dei più svariati indirizzi psicologici al servizio di quel singolo caso.
La pianificazione del trattamento in psicoterapia secondo Makover deve svilupparsi attraverso l’identificazione di quattro elementi distinti (scopo, mete, strategie e tecniche) al fine di rendere esplicite le modalità che condurranno il paziente all’affinamento dell’esperienza affettiva, ad un miglioramento della padronanza cognitiva e ad una più soddisfacente regolazione del comportamento. Parametri attraverso i quali quell’intervento su quell’individuo può alla fine essere oggettivamente considerato efficace. L’attenzione alla pianificazione non risiede però solo nel rendere misurabile l’attività terapeutica, ma serve anche a migliorarne l’efficacia. In particolare la pianificazione è utile per ‘aumentare la motivazione, incoraggiare il lavoro collaborativo, migliorare l’interazione paziente-terapeuta, accrescere la forza degli interventi e promuovere un uso più efficace del tempo della terapia ”.
L’obiezione principale a questo assunto di Makover viene da chi considera la psicoterapia (di indirizzo psicodinamico o meno) come il confronto con un mistero –il mondo dell’inconscio- che qualsiasi pianificazione a priori non potrebbe che svalutare. All’interno del setting ciò che è prestabilito razionalmente non può esautorare la complessità della nostra anima. Dice Yalom , uno dei rappresentanti di questa critica anti-pianificazione: ‘invero, la capacità di tollerare l’incertezza è un prerequisito per la professione…i terapeuti di frequente vacillano, improvvisano e cercano la direzione a tentoni…la convinzione (opposta) può bloccare l’incontro incerto e spontaneo, necessario per una terapia efficace”.
In seguito cercherò di offrire il mio punto di vista sul modo in cui queste due concezioni, non tantoo della pianificazione terapeutica quanto della stessa psiche, possano probabilmente essere conciliate nel contratto d’analisi.
Ogni indirizzo terapeutico ha un suo obiettivo ideale: Makover non ne esclude nessuno ma li seleziona in funzione delle richieste del paziente. Per il pensiero pragmatico di Makover infatti lo scopo –cioè il primo dei quattro elementi per realizzare una buona pianificazione- deve consistere nella realizzazione dei tre principali effetti della psicoterapia: ‘risolvere l’angoscia che ha portato il paziente da noi, consentirgli di ritornare almeno al livello precedente di funzionamento e forse anche ad un livello più alto, permettergli di fare ulteriori progressi, crescere e svilupparsi’. Per ottenere questo, lo scopo deve essere innanzittutto inclusivo secondo la ‘legge della parsimonia’, nel senso che deve racchiudere la soluzione più densa di tutto quello che il paziente chiede alla terapia, filtrato attraverso ciò che il terapeuta è consapevole di poter fornire. Lo scopo deve essere realistico, cioè raggiungibile da quel particolare paziente in quel contesto e soprattutto deve essere specifico, cioè adatto ai due attori del setting. Lo scopo insomma è il termine concordato della road map verso cui vertono gli sforzi di entrambi.
Nel caso di Pablo –ad esempio- un pittore di 37 anni affetto da un dongiovannismo frenetico ed infelice, lo scopo ultimo della psicoterapia è rappresentato dallo sviluppo di forme di relazioni mature. Per Wendy, la vedova di 45 anni che da tre anni non riesce a superare la depressione per la scomparsa prematura del consorte, lo scopo consiste nella ‘accettazione’ della morte di Walter, il marito. Prosaicamente, ma realisticamente, nel caso di Ulisse, il giovane di 24 anni disoccupato e bevitore a causa del nepotismo del suo ex direttore, l’obiettivo della terapia deve essere quello di fargli ritrovare gli stimoli per tornare a lavorare con la passione di prima. Nel caso di Derek, il professionista di 33 anni che non riesce più la mattina ad andare al suo studio dentistico a causa di una pervasiva apatia e anedonia, Makover identifica lo scopo nel ritrovamento di quella che chiama Eutimia, cioè l’umore positivo.
Al di là di alcune banalizzazioni dello stesso Makover, credo che la dimensione di concretezza dello scopo non debba mai essere persa, così come a volte le terapie ad indirizzo psicoanalitico tendono a fare in nome di una interpretazione simbolica del sintomo che si dimentica delle richieste del paziente.
Ciascuno scopo –continua l’autore- può essere suddiviso in ‘scopi sussidiari’ o mete. La meta è un obiettivo elaborato in termini operativi. In altre parole la meta è la risposta alla domanda: ‘Che cosa deve accadere di diverso perché il paziente raggiunga lo scopo della terapia?’. Numericamente ogni scopo dovrebbe essere diviso al massimo in quattro mete. Per Ulisse, il giovane licenziato che diventa un bevitore, lo scopo del ritorno al lavoro può, ad esempio, essere scomposto in tre mete comprendenti: il sollievo del sintomo della delusione, il ricoinvolgimento sociale e la ricerca effettiva di lavoro. Per Pablo, il donnaiolo, le mete che riconducono alla relazione matura con una donna possono essere suddivise in: eliminazione degli oggetti edipici inappropriati e raggiungimento di scelte oggettuali appropriate (o genitali).
La meta deve essere misurabile, cioè rappresentare un elemento di valutazione del progresso del setting; rilevante, cioè rispondere ad una esigenza sentita e attuale; e infine raggiungibile, realizzabile.
Al termine del capitolo sulle mete, Makover introduce una distinzione che, dal mio punto di vista, appare integrativa della tendenza a volte eccessivamente cognitiva dell’autore. Le mete vengono distinte in due classi: le mete del trattamento, cioè del processo terapeutico, e le mete di vita, cioè gli approdi a cui il cliente tende e che superano i tempi e gli scopi immediati della terapia, ma che la terapia indirettamente può aiutare ad avvicinare. La distinzione fra lavoro sui sintomi (meta del trattamento) e lavoro sulla totalità dell’individuo (mete di vita) caratterizza la differenza fra le terapie ‘di sostegno’ da quelle ‘interpretative’, cioè fra quelle ad indirizzo più supportivo e quelle ad indirizzo psicoanalitico. Ebbene, mi sembra che si potrebbe avere giovamento da una applicazione di questa distinzione anche allo scopo –così come è stato identificato da Makover- della pianificazione del trattamento. Cioè al fianco dello scopo della terapia (più vicino alle esigenze delle terapie cognitivo-comportamentali) si dovrebbe porre, con una intensità variabile dalle capacità, dalla volontà e dalle possibilità sia del paziente che del terapeuta, anche uno scopo ‘psicodinamico’, di carattere più ermeneutico e globale. Si dovrebbe cioè lavorare contemporaneamente alla soddisfazione delle richieste del paziente di essere affrancato dal dolore dei suoi sintomi, e allo stesso tempo, per usare un linguaggio junghiano interpretare i sintomi come l’espressione dell’attivazione di complessi autonomi profondi che più che essere risolti chiedono di essere ascoltati. Il cliente dovrebbe essere al contempo ‘liberato e legato’ alla croce dei suoi aspetti Ombra, che continueranno probabilmente a rappresentare, anche al termine della terapia -sotto altre vesti- il controcanto della sua dimensione cosciente, e quindi anche lo scrigno delle potenzialità da cui attingere per ogni ulteriore crescita individuale.
La terapia in questo modo sarebbe contemporaneamente chiamata a risolvere il problema immediato (scopo supportivo) e allo stesso tempo ad interpretare il sintomo come l’invito ad una maggiore sincerità verso se stessi e il proprio mondo interiore (scopo interpretativo).
Ad esempio nel caso di Derek, il dentista insoddisfatto della propria condotta ‘perbene’, si potrebbe ipotizzare l’utilità, accanto al lavoro per il recupero del buon-umore (Eutimia) –così come detto da Makover- anche un’altra forma di indagine psichica. Più profonda, rischiosa e forse duratura. E cioè la verifica della reale corrispondenza di una vita apparentemente invidiabile (‘attività professionale fiorente, una casa fatta su ordinazione, una casa per le vacanza sul lago, tre macchine e due barche’) con le esigenze interiori di Derek: la sua incapacità di elaborare le pressioni sociali in funzione personale, insomma la tendenza ad assumere Maschere che lo allontanano da Sé e non lo rendono felice. Quella forma invasiva di depressione forse potrebbe essere per Derek la prima cosa vera che il professionista impeccabile ha fatto per se stesso.
E ancora nel caso di Ulisse, il lavoratore di un’agenzia funebre licenziato e sostituito dal figlio del direttore. La sua facilità nel cadere preda dell’alcool, abbandonando la ricerca di un altro lavoro, dovrebbe far riflettere sull’opportunità non solo di aiutare Ulisse a ritrovare le motivazioni per tornare al lavoro (obiettivo di sostegno) ma anche sull’opportunità di ripensare il suo rapporto con le figure di autorità, la sua tendenza ingenua a diventare il figlio prediletto, la sua mancanza di autonomia decisionale, il suo attaccamento alle ‘cose morte’ dell’agenzia funebre (obiettivo interpretativo).
Analoghe riflessioni cliniche –dal nostro punto di vista- possono essere fatte per Wendy, la donna di mezza età che da tre anni piange la morte prematura del marito. Oltre alla elaborazione del lutto come accettazione della propria attuale condizione, forse potrebbe essere indagata per il futuro la sua difficoltà di allontanamento e la sua dipendenza dai caregivers. La tragedia della vedovanza e della solitudine potrebbe essere lo sprono per cercare di creare una identità più forte e diffusa, che sappia entrare in dialogo con il proprio Sè.
Solo per il caso di Pablo, il pittore alle soglie dei quarant’anni sempre in cerca di donne dalle quali rimane puntualmente deluso, Makover sceglie una chiave di lettura lievemente più psicodinamica, individuando come scopo della terapia il raggiungimento di una relazione matura con il femminile. Accanto alla risoluzione edipica, si potrebbe in ogni caso configurare la necessità per Pablo di non esorcizzare il contatto creativo con la propria dimensione materna inconscia, ma di imparare a rimodellarlo attraverso la consapevolezza dell’esistenza di un complesso autonomo che probabilmente continuerà a costituire la cifra della sua attività artistica di pittore e della sua vita di relazione.
Queste le mie osservazioni. Ma torniamo al testo.
Nel diagramma di pianificazione, al di sotto delle mete Makover pone idealmente le strategie, cioè la definizione degli approcci terapeutici che possono aiutare il paziente a muoversi verso la risoluzione dei suoi sintomi. Non tutte le strategie debbono essere usate contemporaneamente: il lavoro strategico su una prima meta può facilitare il lavoro sulla seconda.
Per ‘scelta delle tecniche’ –l’ultimo stadio della pianificazione- Makover intende la selezione degli interventi terapeutici, delle specifiche manovre che permettono di realizzare la strategia. Ad esempio una benzodiazepina in una scelta strategica di psicofarmacologia o, meglio ancora, una operazione cognitiva di decatastrofizzazione per una scelta strategica che si muova in quella direzione di indirizzo terapeutico.
L’elaborazione del piano di trattamento –secondo Makover- è però solo una delle 5 fasi dell’intero processo di pianificazione, che comprende: la valutazione, la formulazione, il piano di trattamento (con le sue quattro dimensioni, appena esposte: scopo, mete, strategie, tattiche), la negoziazione e il contratto terapeutico.
La terapia spesso inizia prima dell’incontro; lo dimostrano i miglioramenti riportati dai pazienti in lista di attesa (Endicott, 1963). I primi incontri di valutazione però rivestono un’importanza unica come nessun altro momento dell’analisi. Innanzittutto per la creazione di una buona alleanza terapeutica, che alcuni autori (Greenson, 1967) pongono alla base di ogni successo terapeutico. E poi -fattore meno aspecifico del precedente- per la generazione di ipotesi che devono essere verificate al fine della conclusione diagnostica. Giudicare la bontà di un’interpretazione è complicato. La sua unica misura, dice Makover, dipende probabilmente dalla sua capacità di provocare nuovo materiale per il problema sollevato.
Nel porre le domande di valutazione –libere, semistrutturate o attraverso tests- l’attenzione del terapeuta deve vertere sulla rilevanza, anche a scapito della completezza. Il tentativo infatti di raccogliere ogni possibile fatto storico disperde la concentrazione dell’intervistatore da ciò che è veramente importante in quel momento per la vita del paziente. In ogni caso, oltre al materiale storico-biografico, è importante che il paziente risponda a tre domande che l’autore considera fondamentali, e cioè: perché il paziente è venuto qui? Perché è venuto ora? Che cosa vuole?
Nella seconda fase di formulazione il terapeuta è chiamato ad offrire un collegamento di significato agli elementi principali della storia del paziente, garantendo loro un sostegno di senso generale. Se organica e coerente, la formulazione sarà in grado di organizzare un quadro clinico del paziente e permetterà anche al terapeuta di fare delle previsioni sul comportamento futuro e sul corso del trattamento. Secondo il modello di Makover il processo con cui si genera una formulazione può essere suddiviso in quattro stadi: identificazione del problema o del tema significativo, esplorazione e chiarimento del problema, formulazione di ipotesi e validazione della stessa.
Nella terza fase si passa dalla formulazione dell’ipotesi al piano di trattamento (di cui abbiamo parlato all’inizio) attraverso un processo a due stadi. Il primo stadio ha luogo nella mente del terapeuta, quando egli traduce la formulazione in un foglio di lavoro. Il secondo stadio è una transazione fra il terapeuta e il paziente in cui le idee del primo vengono presentate al secondo, riviste, revisionate e portate avanti fino a giungere ad un consenso comune.
Nella quarta fase Makover prevede l’avvio della negoziazione che porterà alla stipula del contratto terapeutico. Anche se apparentemente un po’ legalistica, la terminologia dell’autore è giustificata dalla volontà di trasparenza e di chiarezza nel processo di pianificazione fra paziente e terapeuta. Ogni atto deve essere esplicitato, condiviso e ratificato, cioè accettato con senso di responsabilità. I rischi di un accordo incompleto o peggio falso sono il fallimento della terapia. Per evitare questi rischi i terapeuti devono parlare apertamente delle loro ipotesi, devono essere chiari su quello che propongono di fare e devono chiedere ai pazienti se ciò corrisponde alle loro aspettative. Naturalmente non è necessario che vi sia accordo su tutto: l’elemento più importante che deve essere accettato in comune è lo scopo, poi vengono le mete. L’accordo sulle strategie e le tecniche sono di minore importanza.
La verifica degli assunti del libro applicata al servizio del caso di Freddy, la matricola spaventata, e la antologia dei campi psicodiagnostici in cui è possibile fruire dell’utilità della pianificazione del trattamento, sono gli ultimi due capitoli che chiudono un testo di densa, lineare e a volte anche appassionante lettura.