prefazione a La sindrome dello scrittore ovvero Ludus sexualis, di Francesco Mercadante, Beppe Giuffré, Trapani, 2005 – Estratto
L’artista per eccellenza, ha scritto Otto Rank, forse il più misconosciuto dei pionieri della psicoanalisi, è l’uomo gr’eco. Perché? Interrogativo arduo, questo, che Rank si è posto e ci ha posto. Interrogativo che trova nelle pagine del libro di Mercadante un conveniente luogo di accoglimento, un contenitore possibile. All’interrogativo Rank ha offerto il favore di una risposta inequivocabile e tale da richiedere tutta la nostra considerazione. È l’uomo greco l’artista per eccellenza perché è l’uomo greco ad aver creato la persona umana.
La risposta di Rank va accompagnata sulla soglia di un altro interrogativo, l’interrogativo che declina l’equazione estetica, diciamo anche scrittoria, scultoria, pittorica dell’analisi e, di converso, l’equazione analitica dell’arte, dello scrivere, dello scolpire, del dipingere. Se è vero che l’uomo greco è l’artista per eccellenza perché ha creato la persona umana, dobbiamo chiederci attraverso quale modalità tale processo si sia reso possibile. Anche a questo interrogativo Rank offre la propria risposta e anche in questo caso, ineludibilmente, siamo chiamati a una sua seria considerazione. La modalità attraverso la quale l’uomo greco ha inventato la persona umana, sostiene Rank, è l’identificazione. Il suo nome, in lessico rankiano, suona riproduzione autoplastica. Ebbene, per più di un motivo, e qualcuno proverò a dirlo, lo studio di Mercadante ha come oggetto, e insistito oggetto, la riproduzione autoplastica di cui parla Rank.
Per Rank la riproduzione autoplastica si pone alle radici, alle origini del fare arte. In altri termini l’artista e, diciamo in modo più specifico, in relazione al lavoro di Mercadante, lo scrittore riproduce attraverso il proprio scrivere il proprio divenire e in esso, come in uno specchio, il lettore può veder riflesso il suo. Ci dovremmo ancora domandare, dal momento che, come da tempo sappiamo, domandare è domandare ancora, quale oggetto identificatorio abbia in mente Rank quando pensa all’artista e alla sua riproduzione autoplastica. Ebbene, e qui l’aggancio con il lavoro di Mercadante inizia a farsi del tutto evidente, quell’oggetto è la madre. Lo scrittore crea a partire dalla propria identificazione con la madre e, diciamo meglio, scriviamo meglio, con la Madre.
Ora quale significante rappresenta la Madre meglio della pagina bianca, anzi, per dirlo con le parole dell’autore, della “dolente presenza della pagina bianca”? Mercadante lo chiama “violenza dell’inizio” e, ancora, parla del “rotundum”, dell’uovo cosmico che era in principio, contenitore assoluto, anche ouroboros, in cui ognuno di noi è immerso in una disperata, sia pure inconscia, participation mystique e dalla cui presa lo scrittore può affrancarsi solo a costo di “sommi sacrifici psicofisici”. Quale significante rappresenta la Madre meglio della pagina bianca, dal momento che bianco è il colore delle dèe? E bianco è quello schermo, simbolo del seno materno, su cui, stando a Bertram Lewin, il sognatore proietta il proprio sogno?
Violenza dell’inizio, certo, perché la Madre (chiamarla “grande” suona quasi pleonastico), questa dea assoluta, non elargisce doni con facilità, non si lascia domare, non sembra insomma volere la Storia. Da questo Sé, che è il tutto senza confini, l’Io deve staccarsi e il distacco, ovviamente, comporta colpa e angoscia. Angoscia che Mercadante ridefinisce come “un fenomeno essenziale allo scrittore”. Cos’è d’altronde il Sé per l’Io se non il reiterarsi delle sue (dell’Io) sconfitte? Come può pretendere l’Io, e l’Io dello scrittore, di esperire il Sé se non come sconfitta? E dal momento che ogni esperienza del Sé, di questa pagina bianca che lo significa, è l’inizio dell’Io, un inizio per l’Io, una sua iniziazione, allora di quella violenza dell’inizio, di cui si diceva, non può che darsi ripetizione.
L’archetipo dell’identificazione dell’artista con la madre è, nella prospettiva di Rank, Prometeo, cui Mercadante, non casualmente certo, dedica una sezione del proprio lavoro. L’artista Prometeo crea uomini a propria immagine e può farlo soltanto a condizione, dolorosa condizione come ci racconta il mito, di nascere e rinascere più volte. L’Io deve dare spazio al Sé, deve concedergli libertà d’azione, scrive Mercadante, ma questo gli si rivolge contro come tormento. Ricomporre l’orfico Dioniso dilaniato dai Titani, e si tratta qui dell’altro mito che campeggia nella prospettiva abbracciata da Mercadante, ricomporre questi pezzi d’uomo e, potremmo dire, d’Uomo, pensando all’Anthropos, gnostica figura del Sé, non significa forse sottoporsi di nuovo, iniziarsi a quello smembramento?
Lo scrittore si ripropone allora a noi nelle vesti di Titano, di Prometeo, di Dioniso, di eroe. La pagina bianca può ad esempio ben valere lo specchio nel quale Dioniso si era perso allorché i Titani, cogliendolo di sorpresa, lo fecero in mille pezzi (d’Uomo), ma anche lo specchio in cui il bambino dell’uomo, che di fatto ancora non si percepisce come uno, giubila di vedere la propria immagine, i confini del proprio essere, sia pure immaginariamente, come uno. Si tratta qui di quello che Lacan ha chiamato stadio dello specchio.
E, però, cos’è lo specchio che ci rimanda il nostro essere uno quando uno ancora non siamo? Risponde Winnicott: è il volto della madre. E cos’è, ancora, il volto della madre se non una pagina bianca, la pagina bianca, l’immagine dell’inizio? Immagine dell’inizio che in sé contiene le ragioni, il perché e il per che del bisogno di scrivere. Il perché e il per che del bisogno di scrivere sta dalle parti di ciò che nasce, di ciò a cui si deve dare nascita.
Perché e per che esiste, come emergendo da un fondo oscuro, la scrittura? Perché la pagina bianca in fin dei conti, e di tormentati conti, non paralizza? Ipnotizza, certo, fa entrare in trance, ma non paralizza. Perché? Si scrive per nascere, perché nascere non è atto che si concluda nel fatto stesso, storicamente dato una volta per tutte, del suo prodursi. Si scrive per nascere e per godere di questo nascere. Si scrive perché si faccia mondo e il mondo non è se non a condizione di nascere e di godere nascite, apparizioni, epifanie, di godere il racconto, il trasformarsi del tutto in racconto.
Cosa fa lo scrittore quando viola, uccide la pagina bianca? Genera. Si autogenera. Si riproduce autoplasticamente. È in virtù di quella sofferenza riproduttiva, che s’origina la catarsi di chi legge. Tale autogenerazione, secondo un vertiginoso gioco linguistico di Lacan, s’assimila a una separazione. La vita, scriveva Rank, è una sequela di separazioni. Cosa fa lo scrittore quando uccide la pagina bianca? Si separa, esce dal corpo della madre nell’unico modo possibile: entrandovi. Non c’è modo di procedere, di rinascere, se non affermando il dispiacere ha sostenuto un altro grande della psicoanalisi: l’ungherese Sándor Ferenczi. E l’affermazione del dispiacere costituisce quel lato femminile dello scrittore, quel pezzo femminile dello scrittore di cui ha fatto questione il romantico Coleridge, questione che, nelle specie coleridgeane dell’androginia, è stata pienamente riesumata da Virginia Woolf.
La potenza della parola scritta sfida l’Io che la incide, la scolpisce sulla pagina bianca. Appartiene allo scrittore e tuttavia non è sua. L’uomo rappresenta il logos ma il logos possiede l’uomo. Rappresenta dunque lo scrittore, mette sulla scena ciò che, mentre stia rappresentando, mentre si trova dentro un racconto, che pure gli sembra il suo racconto, lo possiede. E, tuttavia, il mondo non è senza il suo immaginare, senza il suo incidere segni, il suo scolpire dentro le viscere del bianco, come anche, a suo modo, ci ha raccontato il vescovo irlandese Berkeley col suo detto, odoroso alla stregua di un koan zen, esse est percipi.
Quando lo scrittore immagina, sfida il caos, il nulla, la distruzione che pulsano a uno scarto, insistenti, ossessionanti. Il senso di tale sfida rinviene il suo fondo nella capacità trasformativa delle parole. E si tratta qui di un ambito ampiamente indagato dagli scrittori e, tra questi, da Geoffrey Chaucer, l’autore dei Racconti di Canterbury. È appunto per questo motivo che Harold Bloom considera Chaucer il vero precursore di Shakespeare, più della Bibbia o di Marlowe. Chaucer avrebbe infatti fornito a Shakespeare il suggerimento fondamentale sul quale questi avrebbe costruito la propria originalità, la propria invenzione dell’uomo: la capacità di rappresentare la trasformazione mostrando l’individuo che medita sui propri discorsi e viene modificato da questa stessa meditazione.
Sappiamo a quale condizione, e Mercadante ce lo racconta con dovizia di particolari e di riferimenti, Prometeo può creare: può creare a condizione di rinascere pià volte. Rinascere più volte, però, implica morire più volte. Ci racconta il mito come a questo titano, incatenato da Efesto a un monte del Caucaso, il fegato che un’aquila gli divora ogni giorno rinasca ogni notte. Concetto sacrificale dell’arte, si direbbe, certo e concetto che Rank non mancò di abbracciare pienamente. La sua idea, la sua idea fondamentale, come la chiamava, era che se per ogni cosa creata occorre un creatore, è anche necessario un pezzo di vita, un pezzo di vita che si fissi all’esistere non transeunte dell’opera d’arte. Da dove è preso, però, questo pezzo di vita cui dobbiamo la creazione dell’opera d’arte? Da una vita distrutta. Ogni cosa creata s’origina da una vita distrutta. L’artista, ha scritto Rank, partorisce la propria opera, e se stesso nella propria opera, attraverso atti di nascita sempre rinnovati e con tutte le doglie femminili del parto. È questo dunque che, nella pagina bianca, nei bianchi seni della Madre, cerca lo scrittore? Anche una questione di potenza, certo, ma di una potenza che l’Io, al cospetto di quel Sé e in relazione con quel Sé che reiteratamente gli infligge sconfitte, paga a caro prezzo.