in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, n. 17 “Abbandoni”, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013 – Estratto
di Valentina Bonaccio, Roma
“El tango es un pensiamento triste que se puede bailar”
Enrique Santos Discépolo
Nel 2009 l’UNESCO ha dichiarato il tango argentino “un bene culturale immateriale” patrimonio dell’umanità. Perchè tra tante tipologie di danza, proprio il tango argentino è diventato il fiore all’occhiello della ricchezza culturale planetaria? Il tango risponde al bisogno umano di colmare il silenzio “opaco, vuoto e senza risonanze”1 che segue l’abbandono. La camera gestazionale del tango è l’area geografica di Rio de la Plata, parte marittima del confine tra Argentina e Uruguay. Siamo tra il 1875 ed il 1914 quando arriva un’ alluvione migratoria 2di circa cinque milioni di persone: contadini nomadi, gauchos3 caduti in miseria e gli europei immigrati, in particolare spagnoli ed italiani. Un caleidoscopio di culture, lingue e narrazioni di vita differenti si ritrovano accomunate e consumate nell’interludio limbico tra fine ed inizio, tra caducità e rinascita, tra assenza e presenza e tra senso di estraneità e senso di appartenenza.
La psiche non dimora in categorie spazio-temporali definite, tutto è sospeso in un’atmosfera stordita e rarefatta. La terra premonitrice di garanzia, ricchezza e prosperità diviene la terra dell’abbandono, della disperazione e della perdita. Identità zoppicanti si avvicendano sotto il cielo incerto dell’anonimato, innalzando dolorose preghiere di riscatto sulle nostalgiche note di un bandoneòn4. È come guardare direttamente dentro la psiche dei golondria5, che invocano un’unica possibilità, quella di elaborare il proprio abbandono. “L’abbandonato è un vero e proprio sopravvissuto, quindi un testimone delle rovine ma nello stesso tempo anche la vittima di una distruzione che ha operato all’interno della sua anima”6. L’identità psichica del golondria è lacerata dal germe dell’abbandono. Il crollo e la conseguente destrutturazione del suo assetto psicologico trova la sua ragion d’essere nell’ être à bandon, nell’essere in potere, passivamente, di un vuoto generato dalla rottura di un legame amoroso con la propria terra natale, con i suoi affetti e con se stesso. Nell’affascinante narrazione esistenziale, il Sé proteiforme dell’uomo viene avvolto, in virtù del buon operato di Lachesi7, in un bozzolo contenitivo creato da un filo primario le cui fibre di autenticità lo legano indissolubilmente ad un antico substrato che solo la relazione con l’altro è in grado definire. Per rendere sopportabile la drammaticità della dimensione dell’abbandono “non rimane altro che inscenare la propria vita, ricostruire la propria identità, esorcizzarla, nutrirsi di essa, rappresentandola”8. Ed è qui che il tango diviene una superficie che riflette la vita; uno specchio dell’abbandono. Danzando la rottura e il senso di inadeguatezza che il distacco dalla dimensione primaria ha generato con la “violenza salutare di uno svezzamento”9, si assiste ad una reazione alchemica dove gli elementi nucleari dell’ abbandono, pur rimanendo se stessi, evolvono in un’integrazione psichica dello stesso. Gli opposti ricostruisco la loro ragion d’essere partendo dal proprio “antagonista”: dall’assenza nasce la presenza, dalla caducità il desiderio di infinito, dal disequilibrio l’armonia, dalla caduta la stabilità, dall’anonimato l’identità, dal profano il sacro. Assistiamo quindi all’ inconfondibile magia dell’atto terapeutico.