in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013 – Estratto
3 IMMAGINARIO
Latouche individua tre cardini su cui l’economia globalizzata fa leva per procedere a ciò che l’illustre teorico della sostenibilità ha brillantemente definito colonizzazione dell’immaginario: la scuola, che forma la maggioranza a un consumo disciplinato in vista dell’operato di una minoranza iperproduttiva; la manipolazione mediatica, che induce bisogni e dipendenze; e infine, la quotidianità, che consolida tali dipendenze creando assuefazione al consumo. La via d’uscita dall’immaginario colonizzato è un contromovimento di decolonizzazione che mette in gioco pensiero critico ed immaginazione progettuale. In questo senso la crisi globale offre su un piatto d’argento l’occasione per un “lavoro di delegittimazione dei valori e dell’ideologia dominante” che conduca a una vera e propria Stiftung nel senso hussserliano di rifondazione di stili ed atteggiamenti di pensiero. È in gioco la ridefinizione del benessere: significativa, a riguardo, l’osservazione di Pallante: “mai come ora, meno è stato sinonimo di meglio” , che individua nella crisi un grimaldello capace di aprire le porte a un nuovo modo d’intendere benessere e felicità. Ma in gioco è innanzitutto il riesame critico dell’intera parabola dell’economicismo: dall’avvento di un capitalismo imperniato sulla triade produzione-consumo-profitto, alla globalizzazione quale esito della conversione planetaria al sistema di mercato. Al centro della parabola, la vertiginosa globalizzazione che avrebbe dovuto consolidare i nuovi assetti mondiali e che invece, foriera dei pericoli insiti nella corsa allo sviluppo, dimostra solo che “l’economia trasforma l’abbondanza naturale in rarità con la creazione artificiale della mancanza e del bisogno attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione” : espressione che mina dalle fondamenta i presupposti impliciti di un feticismo economico castrante per un’evoluzione libera e creativa dell’umanità.
Decolonizzare l’immaginario significa allora anche restituire terreno e legittimità alle dimensioni mentali della creatività, liberandole dal Moloc della ratio calcolante e dai suoi diktat omologanti. Occorre riscoprire, al di là della metafisica del denaro e delle mitologie del presente, le risorse della progettualità lucida e responsabile, orientata a un’etica del limite gioiosa e conviviale. Occorre quindi, in primis, un lavoro di decostruzione a macchia d’olio, che smantelli strato a strato le modalità attuali del sentire, del pensare e dell’ex-sistĕre risalendone le storiche genealogie.
Va decostruita innanzitutto la percezione del tempo a noi più familiare: la disposizione delle epoche e dell’arco della vita su un asse rettilineo che avanza da un’origine rozzamente primitiva verso un asintotico traguardo in cui l’uomo sarà privo di bisogni, di necessità, e quindi, presumibilmente, anche di desideri . Con il tracciato di questo “nostro” tempo vissuto, poco ha a che fare il tempo vissuto dagli Ashanti africani, che hanno il passato davanti a sé, in quanto già noto e quindi visibile e, viceversa, il futuro alle proprie spalle, denso d’incognite e imperscrutabile.
4 SENSO E SENSI
Sentire il futuro davanti vuol dire concepirlo in piena luce, nell’abbagliante e pur tuttavia confortevole illusione che sia già tracciato, prevedibile e monopolizzabile entro margini preventivamente segnati. Sentirselo alle spalle, invece, che incombe da “dietro”, implica il riconoscimento della propria umana gettatezza e l’apertura al movimento del senso, che, nella sua incoercibile immanenza, c’investe senza preavviso, senza piegarsi alle leggi di prevedibilità e trasparenza in cui vorrebbe ingabbiarlo l’epistemologia corrente. Il senso che può incontrare chi, a latitudini diverse dalle nostre, non si accanisce ad esorcizzare la paticità dell’esistenza , risuona come un appello ineludibile: è il severo richiamo a gettare la spugna di ogni delirio di onnipotenza, per riconoscerci nella propria umana fragilità, perennemente esposta all’inatteso, all’impensato, all’im-possibile, per dirla con Derrida, quali altrettanti inviti ad ad-tendere, a pensare, a inventare nuove possibilità, e quindi a progettare senza precludersi nulla di ciò che non sia già stato e che proprio per questo potrebbe ancora essere. Il modello dell’anticipazione su cui è ricalcata la nostra concezione del futuro chiude l’orizzonte dell’ad-venire ad un rango ristretto di possibili, agendo già a livello fisiologico e percettivo: incanalati dalle strategie dal cogito, l’udito, l’olfatto, la vista, vengono precocemente atrofizzati dall’egemonia di una mente che si presume disincarnata. Soggiogati e indeboliti, sono sempre meno pronti a lasciarsi avvolgere dai quotidiani spettacoli offerti dalla natura e sempre più frustrati dalla sistematica violazione di ogni estetica del paesaggio e della bellezza. Non resta loro che assopirsi nel dominio dittatoriale della ragione, dove il profumo del denaro inebria più di quello di rose e biancospino che in primavera ancora si ostinano a spuntare timidi e non visti tra grate di asfalto e di cemento.
Abstract
La crisi è sulla bocca di tutti. Come una pandemia cui nulla e nessuno riesce a sfuggire: gli individui singoli, sempre più stretti nella morsa del precariato lavorativo ed esistenziale; le famiglie, abortite, sgretolate, o più semplicemente depresse, da croniche instabilità e ristrettezze finanziarie, pendant di una fatale impossibilità a costruire un Noi; la società, frantumata da un atomismo dilagante; intere nazioni ridotte al lastrico; l’ecosistema che, non potendo ribellarsi, diviene vittima predestinata d’istinti insaziabili e campo di battaglia d’inedite competizioni. Eppure, in regioni dimenticate della terra, nel silenzio sedicente dei media, si respira aria di ottimismo; la fame diminuisce, la parola democrazia si arricchisce di nuove valenze. E anche nel Belpaese, chi ieri stava molto bene oggi sta benissimo. O almeno, così crediamo per fede nel reddito, mentre ci sforziamo di mantenerci ben saldi, in funambolico equilibrio, sugli assi friabili di un immaginario delirante, seguendo ostinatamente itinerari già tracciati, quasi fossero gli unici percorribili, accecati dai miti imposti dalla logica del profitto e sordi ad ogni richiamo verso possibili alternative. Nel presente articolo mettiamo a frutto le risorse del pensiero critico, strumenti ben rodati dalla tradizione occidentale, per proporvi un esercizio di decostruzione della retorica della crisi in 10 tappe, corrispondenti ad altrettanti risvolti positivi del momento che stiamo vivendo.