John J. Clarke, Jung e l’oriente. Alla ricerca dell’uomo interiore, 1994. Traduzione italiana a cura di Cristina Spinoglio e Antonella Sechi. Genova, ECIG, 1996 (in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 41, 1997)
Jung e l’oriente, ovvero delle ambiguità di Jung nei confronti dell’oriente e della sua negazione delle possibilità occidentali di taoismo, yoga, buddhismo. L’occidente estrovertito ha bisogno dell’oriente introvertito e, tuttavia, Jung sembra caldeggiare piuttosto l’apporto teorico orientale e non pratiche che ritiene pericolose per l’uomo occidentale. In particolare, scrive Clarke, Jung ritiene temibili gli stati simili alla trance perseguiti nello yoga e, soprattutto, le tecniche dello yoga tantrico. Il pericolo è quello dell’induzione di stati psicotici. «Studiate lo yoga» ripeteva lo psicologo svizzero «vi imparerete un’infinità di cose, ma non lo praticate». E, tuttavia, non aveva Jung definito l’immaginazione attiva una «psicosi anticipata»? E quegli stati simili alla trance perseguiti dallo yoga sono così diversi da quelli indotti dalla pratica, occidentale, dell’immaginazione attiva? Clarke sottolinea l’insistenza di Jung sulla costruzione in fieri d’uno yoga occidentale. Ora, questo yoga occidentale è la psicologia del profondo e, più specificamente, l’immaginazione attiva. Jung ha ritenuto che la produzione occidentale del suo proprio yoga sarebbe avvenuta, nel corso dei secoli, sulla base del cristianesimo. Anche qui è da rilevare una forte ambiguità di Jung (Clarke non sembra averne sentore). Dal momento che la psicoanalisi è già ai tempi psicoanalitici vista da Jung come la grande sostitutrice di duemila anni di cristianesimo, allora non si comprende come il cristianesimo possa costituire la base della costruzione occidentale d’un proprio yoga. Va in tutti i modi rilevato come Clarke ritenga quello dell’immaginazione attiva un tentativo timido e, di fatto, inadeguato in vista della produzione occidentale del proprio yoga. Le cose stanno secondo me diversamente. Con l’immaginazione attiva Jung raccoglie un’eredità millenaria dell’occidente (a partire dalla grecità e, dunque, dalle sue propaggini orientali) e un’eredità che egli ha provato a rintracciare, ad esempio, nello gnosticismo, nell’alchimia, nella stagione romantica. Il fatto è che bisogna fare immaginazione per parlarne. Jung si trova psicologicamente in difetto, in contraddizione, di fronte all’oriente, dal momento che caldeggia la teoria e ne sconfessa la pratica. Se può parlarne, tuttavia, ciò si deve a quell’albero dell’immaginazione attiva le cui radici sono gettate tanto a oriente quanto a occidente.
2) Jung sull’immaginazione attiva
Joan Chodorow, Jung on Active Imagination, London, Routledge, 1997 (6 (in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 43, 1998)
Una antologia di scritti di Jung concernenti l’immaginazione attiva con una buona introduzione, una discreta bibliografia e una mirata scelta di testi di Jung tratti però soltanto dalle Opere e non dai Seminari. L’esclusione appare sorprendente se si pensa, ad esempio, che Jung ha dedicato dense sessioni seminariali a quelli che considerava analoghi, corrispettivi, a vario titolo, dell’immaginazione attiva, vale a dire lo yoga, gli esercizi spirituali di San Ignazio di Loyola e l’Alchimia. L’esclusione appare inoltre decisamente inspiegabile a partire dalle considerazioni svolte dalla stessa curatrice e da uno almeno dei testi inclusi. E’ rilevante ad esempio che l’espressione stessa, «immaginazione attiva», come rileva la curatrice, appaia per la prima volta in ambito seminariale. La circostanza è quella dei seminari svolti da Jung alla clinica Tavistock nel 1935 e sta a dimostrare quanto faticoso sia stato l’approdo terminologico di Jung se si pensa che la scoperta dell’immaginazione attiva può essere datata negli anni 1913-16 (successivamente alla rottura con Freud) e se si considera l’abbondanza lessicale con la quale Jung ha nominato il proprio metodo terapeutico (Joan Chodorow elenca dodici espressioni tra le quali figurano «funzione trascendente», «fantasia attiva», «tecnica di differenziazione», «tecnica di introversione», «introspezione»). Nell’introduzione, inoltre, la curatrice cita brani derivati dai seminari. E’ il caso ad esempio dell’incontro del 4 maggio 1932 (relativo al seminario sull’Interpretazione delle Visioni) durante il quale Jung sviscera le implicazioni del verbo tedesco betrachten, il vedere che feconda, che attiva, che moltiplica. Nel chiudere la propria introduzione, infine, la curatrice riferisce in merito alla storia dell’uomo della pioggia, il racconto taoista che si dice Jung raccontasse ogni volta che dava un seminario sull’immaginazione attiva. Ma è in uno dei brani proposti dalla curatrice che la questione dell’esclusione di materiale seminariale dal discorso sull’immaginazione attiva diventa pressoché imbarazzante. Si tratta di una lettera datata 2 maggio 1947 nella quale Jung riconosce che non molto è stato pubblicato sull’argomento (e, dunque, che non molto Jung ha scritto sull’argomento) e aggiunge: “la maggior parte si trova nei miei seminari”
C.G.Jung, The Psychology of Kundalini Yoga. Notes of the seminar given in 1932 by C.G.Jung – edited by Sonu Shamdasani, London, Routledge, 1996
Il testo riproduce quello pubblicato privatamente a cura di Mary Foote (corretto da Jung) nel 1933. In forma abbreviata e senza note il seminario è apparso su Spring (1975 e 1976). (Ed. it. Bollati Boringhieri, 2004)
Nel corso delle sue conferenze seminariali Jung prende in considerazione, dal punto di vista psicologico e in direzione ascendente (a imitazione del movimento della Kundalini, il serpente energia), i sei chakra Muladhara, Svadhisthana, Manipura, Anahata, Visuddha, Ajña. In realtà i chakra sono sette, ma il settimo chakra, Sahasrara, si trova fuori del corpo e non è suscettibile, secondo Jung, di essere raccontato sub specie psychologica.
In altri termini di Sahasrara non si dà immagine e, dunque, in ottemperanza a un postulato cui Jung ha sempre tenuto fede (e cioè che non esiste esperienza senza immagine), Sahasrara è inutilizzabile, o almeno lo è per l’uomo occidentale.
In altri termini ancora, sapere che non c’è Dio, che non c’è oggetto, che tutto non è altro che brahman, che non c’è esperienza perché non c’è un secondo, ma soltanto l’uno, soltanto nirvana, non serve all’uomo occidentale. Ciò implica che Jung guarda all’uomo occidentale come a un uomo psicologico, un uomo per il quale valgono l’equazione “realtà = psiche” e il suo rovescio “psiche = realtà”.
Un punto di vista possibile dal quale leggere il seminario sul Kundalini Yoga è quello di considerarlo alla stregua di un discorso, in parte, sull’immaginazione attiva e, corrispettivamente, su un possibile modo di considerare il farsi della psiche, il suo itinerare, che è poi l’itinerare della Kundalini, il serpente che dorme nel chakra inferiore (muladhara) e che, quale manifestazione dell’energia primordiale (Shakti), si muove in direzione della coniunctio con Siva.
Il punto è: come si attiva Kundalini? Jung parla d’una via analitica preparatoria al risveglio della Kundalini. Si tratta di far pervenire il paziente alla consapevolezza dell’autonomia dell’inconscio. Allo stesso modo in cui, nella pratica del Kundalini yoga, deve essere purificata la mente, così anche in analisi occorre acquisire “oggettività perfetta”, espressione con la quale Jung intende la conquistata possibilità di ammettere che qualcosa si muove nella mente indipendentemente dalla volontà.
A questo serve il movimento riduttivo dell’analisi, il primo movimento dell’analisi cioè (la psicoanalisi, in altri termini). Si tratta in un primo tempo di analizzare atteggiamenti, sciogliere resistenze, inibizioni e impurità. Il secondo tempo dell’analisi (ovvero quello che trascende l’aspetto più propriamente personale) consiste nell’accompagnamento della Kundalini.
Col che Jung dà ad intendere che il trattamento più specificamente junghiano (e alla luce del quale Freud viene di fatto trasceso) corrisponde, metaforicamente, al muoversi della Kundalini in direzione di Siva.