James Hillman, The Soul’s Code, New York, Random House, 1997
The Soul’s Code (Il codice dell’anima) è un libro sulla biografia, sull’estetica della biografia e su quella (ancora) mancata della psicologia. Un libro sul fato, sul demone, sul genio, sul carattere, sulla provvidenza, sull’innatismo dell’immagine che detta i destini individuali al di là del falso dilemma natura/cultura. Ogni persona è portatrice di unicità. Ogni persona in terapia è alla ricerca di una biografia adeguata, e biografia adeguata significa unicità, appunto, contro ogni tipologia, causalismo, fallacia genitoriale, modello ascensionista, contro i costrutti di quella psicoanalisi «materna» (Winnicott, Klein, Spitz, Bowlby, Anna Freud) che adulano l’archetipo e smarriscono la terra, il senso comune, il buon senso, la chiamata del demone, il destino individuale dei figli svincolati, affrancati dai loro genitori.
Come trovare la trama della propria storia, come riappropriarsi della biografia, della bellezza, dell’unicità, della provvidenza di cui siamo stati derubati? L’unicità chiede di essere vissuta e, tuttavia, paradossalmente (e, dovremmo forse aggiungere, platonicamente) è già presente prima di essere vissuta.
L’assunto viene corroborato da frequenti riferimenti alle vicende biografiche di personaggi famosi. Tuttavia, per quanto all’ombra del codice dell’anima sfilino, insieme ai loro demoni, personaggi diversi come Ella Fitzgerald, il torero Manolete, il filosofo inglese Collingwood, Golda Meir, Eleanor Roosvelt, Francisco Franco, Rommel, Jackson Pollock, Gandhi, Elias Canetti, Judy Garland, Josephine Baker, Krishnamurti, Cole Porter, Georg Lukács, Hanna Arendt etc., il pensiero di Hillman va alla bellezza della vita di ognuno di noi, alla bellezza della vita nascosta, alla forza invisibile che sostiene il mito e, polemicamente, al nascondimento di questa bellezza da parte degli psicologi e della psicologia.
La lezione di Hillman è in sintonia con Jung e ne recupera il dettato sub specie æsthetica (una specie che allo psicologo svizzero risultava indigesta). Se non si vuole che i figli vivano la vita mancata dei genitori, ne incarnino l’ombra (ovvero, nel linguaggio di Hillman, ne diventino i vampiri), occorre che i genitori rechino testimonianza del proprio demone e lascino ai figli il loro. Col linguaggio della dea ragione francese, che Hillman non ama, la dea di Cartesio e Malebranche, di Lacan e Derrida, occorre decostruire i genitori, decostruire la fallacia genitoriale, porre fine all’adulazione dell’archetipo.
A ridosso della sintonia con Jung, con Platone/Plotino e la demonologia antica Hillman fa valere l’equazione romantica della psicologia archetipica. Il bambino è il padre dell’uomo, scriveva Wordsworth dopo esser saltato di gioia alla vista di un arcobaleno. Insieme a Wordsworth, insieme a Keats, che vuole una vita di sensazioni piuttosto che di pensieri, Hillman rivendica la necessità che la bellezza permei di sé la psicologia. Ciò lo induce a retrodatare l’inizio della psicologia al tempo in cui l’entusiasmo romantico spezzò le reni all’età della ragione. Cosa compresero i romantici due secoli fa di tanto essenziale per noi? Compresero che ogni teoria della vita deve basarsi sulla bellezza se vuole spiegare la bellezza cui tutta la vita aspira. Come scrive Keats, nella sua ode all’urna greca, la bellezza è verità e la verità è bellezza. È tutto quello che sappiamo su questa terra e tutto quello che su questa terra abbiamo bisogno di sapere.