Jacques Lacan, Il Seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto

J. Lacan, Il Seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto (1956-57), Torino, Einaudi, 1997

Testo stabilito da Jacques-Alain Miller. Edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia.

Nel suo seminario Lacan affronta all’inizio la “théorie du manque d’objet” e discute tre forme di mancanza articolate intorno ai tre registi del reale, del simbolico e dell’immaginario (castrazione simbolica, frustrazione immaginaria, privazione reale). Successivamente il discorso approda alla vie perverse del desiderio (l’omosessualità) e all’oggetto feticcio. Segue una approfondita disamina della struttura dei miti così come è vista funzionare nella fobia del piccolo Hans. Conclude, infine, un envoi che da Hans porta, attraverso il Don Juan di Mozart, a Leonardo da Vinci.

Sia nei confronti della psicologia dell’Io, i cui rappresentanti (Hartmann, Kris, Loewenstein) tacciava di “cherubini”, sia in quelli della psicoanalisi delle relazioni d’oggetto (rappresentata, tra gli altri, da Fairbairn, Balint, Winnicott), Lacan si è sempre mostrato critico.

Nel seminario del 56-57, comunque, non è la scuola inglese delle relazioni d’oggetto che viene presa in specifica considerazione (per quanto Lacan faccia riferimento, ad esempio, all’oggetto transizionale di Winnicott, all’amore primario di Balint, a Melanie Klein), ma quella francese (rappresentata da Maurice Bouvet).

L’oggetto è innanzitutto l’oggetto perduto e da ritrovare. Lacan inizia il proprio seminario appunto a partire dalla nozione di Objektfindung, rinvenimento, ritrovamento dell’oggetto, che si trova nei “Tre saggi sulla teoria sessuale”.

Il tema del seminario, in questo senso, non è tanto la relazione d’oggetto in sé quanto il suo coniugarsi a quella che Lacan chiama “la seconda parte del mio titolo”. Ora, la seconda parte del suo titolo suona: e le strutture freudiane. E tuttavia, se il tema della relazione d’oggetto è centrale, come lo stesso Lacan riconosce e s’interroga, perché non la si è affrontata prima? Perché occorreva prendere le distanze dalla questione, e le distanze potevano esser prese solo a partire dall’avvicinamento alle strutture freudiane. Cosa che, Lacan spiega, è stata fatta nei tre seminari che precedono il quarto in oggetto.

Occorreva prima affrontare la questione della tecnica della cura (transfert e controtransfert), la nozione di inconscio e, nel terzo seminario (quello sulle psicosi), l’articolazione essenziale del simbolismo che, a partire da un De Saussure ritrovato anch’egli e abbondantemente rivisitato, prende il nome di significante.

Allorché, prese le debite distanze, ci si avvicina alla teoria psicoanalitica moderna (ovvero contemporanea a Lacan), si scopre che l’oggetto in questione è soddisfacente, armonioso, capace di “fondare l’uomo in una realtà adeguata, nella realtà che prova la maturità – il famoso oggetto genitale”, e ciò nonostante la ripetizione implicita nella nozione di ritrovamento instauri una discordanza necessaria, un conflitto, una distanza fondante tra oggetto perduto e oggetto ritrovato e ponga “al centro della relazione soggetto-oggetto una tensione fondamentale” in virtù della quale “ciò che è ricercato non lo è allo stesso titolo di ciò che sarà trovato”.

Alla reminiscenza di Platone e all’armonia prestabilita di Leibniz si contrappone la ripetizione di Kierkegaard, ovvero, nei termini impiegati da Lacan, la ripetizione impossibile e, con altro termine ancora, kierkegaardiano e lacaniano, l’angoscia. Tra soggetto e oggetto non si dà dunque qualcosa come un’armonia completa, un incastro prestabilito, la perfezione della soddisfazione.

Proprio questo è il punto: concepire l’oggetto come fonte di soddisfazione svia la psicoanalisi dalle parti della biologia e le fa smarrire la dimensione simbolica del desiderio. Di qui la polemica ingaggiata da Lacan con i fautori delle relazioni oggettuali mature o dell’amore genitale visto come fine del trattamento.

L’intera questione può essere posta anche numericamente, considerata, per così dire, all’ombra delle differenze dei numeri. Nella relazione d’oggetto l’edipico tre (nel caso specifico: madre, bambino, fallo, cui si aggiunge come quarto il padre) slitta a un immaginario, speculare due (madre, bambino). L’enfasi sulla madre e sulla diade madre-bambino perde di vista il fatto che alla relazione col proprio bambino la madre va mancante. Il terzo mancante, diciamo così, è il fallo, appunto. Alla scuola delle relazioni d’oggetto manca dunque la mancanza.

Dove ripara la mancanza se a un altro, sia esso anche una concezione teorica fondante e non soltanto il bambino-fallo, si dice: tu sei tutto per me? In realtà, e qui slittiamo non inavvertitamente dall’amore all’odio, nessuno è tutto per un altro. A ognuno di converso riesce bene essere un altro. Va da sé che anche questa riuscita può risolversi in un fallimento. In altri termini: non esiste soltanto l’amore.

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Giorgio Antonelli