in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 11, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto
Superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia. Ufficialmente la lista si ferma a sette. Ma tra loro s’insinua l’ombra lunga di un altro peccato, che pur non essendo definito in quanto tale, appare tuttavia come l’origine e la radice comune di ogni altro: il peccato dell’immaginazione.
Sembra proprio che per i mistici medioevali, come più tardi per Cartesio, l’immaginazione celi in sé qualcosa di diabolico: offrendo l’immagine di ciò che è assente, fabbrica illusioni, allontana dalla verità ed incastra nelle avide grinfie del male. È l’immaginazione che si rivela nei sogni e che è legata a doppio filo con il desiderio: da una parte ne è figlia, dall’altro lo alimenta in una corsa irrefrenabile in cerca dei piaceri. Ne parla Hobbes, del “desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro che cessa soltanto con la morte” . Riappare qui la triangolazione immaginazione-desiderio-piacere già presente in Aristotele. Nell’Anima il ruolo etico dell’immaginazione appare piuttosto ambiguo. Da una parte, infatti, essa guida il desiderio oltre gli stimoli immediati, ed è quindi potenziale veicolo di una sua nobilitazione; dall’altra, invece, si frappone alla ragione lasciandoci in balia del caos sensibile. Insomma, l’immaginazione è un regno di mezzo; rispetto all’esercizio delle virtù razionali è tanto un ostacolo quanto un passaggio necessario. In definitiva, però, per Aristotele è una spinta negativa all’azione. “Per il fatto che le immagini rimangono in noi e sono simili alle sensazioni gli animali compiono molte azioni in accordo con esse, alcuni perché non sono forniti d’intelligenza, come i bruti, altri perché talora hanno la mente oscurata dalla passione, dalla malattia o dal sonno”. E se nelle specie animali prive d’intelletto l’immaginazione affranca dall’istinto, per l’uomo immaginare equivale invece a tradire la sua vera natura, che richiede un passo ulteriore verso la pura razionalità. È perché esiste la ragione che l’immaginazione nella nostra specie non sarà tanto una virtù e una capacità, quanto piuttosto un limite e un peccato. Ci aveva già avvertito Platone: le immagini sensibili sono false e ingannevoli: occorre trascenderle in direzione della verità intelligibile. Lo ribadisce Aristotele: solo chi ha la mente obnubilata si fa guidare dalla fantasia. L’eikasìa di Platone e la phantasìa di Aristotele sarebbero per gli individui razionali una forma di regressione ad uno stadio prerazionale, che si lasciano definire innanzitutto in negativo. Qualche cosa di simile avviene con Freud, che ritiene di dover relegare all’inconscio le immagini dei sogni. Per il padre della psicoanalisi, non meno che per Platone, l’immaginazione notturna è il luogo in cui si manifestano impulsi ferini e desideri licenziosi.
Tra Platone e Freud, comunque, è nato un concetto sconosciuto alla mentalità greca: il peccato. In che cosa consista la distinzione tra il vizio, già noto nell’antichità, e peccato, che è invece un’acquisizione del cristianesimo, ce lo spiega Abelardo con un esempio molto concreto: “Non è peccato bramare una donna, ma è peccato dare consenso alla concupiscenza; e non è condannabile la volontà dell’unione carnale, ma il consenso della volontà” Mentre il vizio è un’inclinazione naturale ed entro certi limiti non evitabile, il peccato richiede invece il concorso attivo della volontà e implica la responsabilità morale. Per Abelardo e per i pensatori medioevali, però, ciò che vale come peccato non è l’azione, bensì l’intenzione. Il cristianesimo interiorizza l’etica, spostando l’accento dalla concretezza dell’agire al foro difficilmente sindacabile della coscienza. Dar corpo alle fantasie sensibili, anche se si tratta di un corpo immateriale, significa pur sempre dare il proprio assenso alle sollecitazioni della carne. L’immaginazione non fa più soltanto paura perché, come già ben sapeva Aristotele, può condurre ad azioni difettive sostituendosi alla ragione, ma fa paura anche e soprattutto in se stessa, in quanto può soggiogare l’uomo e deviarlo dalla purezza delle intenzioni. Non è un caso se una delle più importanti testimonianze dell’angoscia cristiana di fronte al mondo pagano sia una lettera di San Girolamo che parla di un sogno . Ed è a questa angoscia che dobbiamo il fatto di avere oggi una parola per indicare l’incubo, secondo Jonas un’invenzione del medioevo, che deriva dal latino incubo: demonio. Comunque stiano le cose, se già per i greci i sogni erano espressione di forze demoniache, è però soltanto con il cristianesimo che il demoniaco si trasforma in pura negatività. Per i greci il daìmon era una divinità o lo spirito dei trapassati, o anche, come dimostra l’esempio di Socrate, il genio della coscienza, una sorta di grillo parlante ante litteram. Con l’avvento del monoteismo anche il demonio viene unicizzato e diventa forza del male. Anche i sogni si dividono tra quelli inviati da Dio e quelli inviati dal demonio, fronteggiandosi in un testa a testa che sovrasta le elaborate classificazioni pagane. Anche quando sono inviati da Dio i sogni possono essere cattivi: nella Bibbia sono uno dei possibili mezzi con cui la fede viene messa alla prova . Ecco dunque che per Diadoco di Fotica, asceta cristiano del V secolo, Dio perdona chi non riconosce nel sogno il messaggio divino, e respinge in blocco le immagini oniriche . Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, i prodotti del sonno sono beffe del demonio e assecondarli significa allontanarsi dalle vie del Signore. Il cristiano che diffida della propria immaginazione notturna non può quindi essere biasimato.
Quella dell’incubo non è soltanto un’allusione generica alla sfera del demoniaco: esso richiama anche più specificamente le tentazioni carnali. Incubare, infatti, significa “giacere sopra” e “incubi” erano i seduttori che insidiavano il sonno delle donne caste, mentre le notti degli uomini virtuosi erano dominate dalle “succubi”, coloro che “giacciono”. Possiamo quindi immaginare che all’origine l’incubo non sia stato affatto ciò che oggi definiremmo un brutto sogno, ma al limite, un sogno cattivo e, soprattutto, un sogno peccaminoso. Che sia piacevole o spiacevole, trappola del demonio o prova di Dio, il sogno diviene, a poco a poco, oggetto di radicale censura.
Abstract
A margine dei peccati tradizionali, l’immaginazione e il sogno sono stati considerati con estrema diffidenza dall’ortodossia cristiana, che ne ha fatto in qualche modo la sorgente e la matrice di tutti i peccati. All’origine di questa diffidenza c’è forse il fatto che l’immaginazione è un segno di trascendenza e che permette all’individuo di entrare in comunicazione diretta con il divino, senza passare per la mediazione dell’autorità. Non è certo un caso che il sogno sia stato valorizzato soprattutto all’inizio dell’era cristiana, quando a prevalere era l’istanza di un contatto immediato con Dio: primi cristiani e gli ultimi pagani sono accomunati dallo stesso atteggiamento di fiducia nei confronti del sogno, atteggiamento che va di pari passo con la ricerca di una religiosità personale. A partire dal IV secolo, invece, e a mano a mano che si costituisce il potere delle gerarchie ecclesiastiche, sogno ed immaginazione subiscono una radicale svalutazione, legata soprattutto alla necessità di tenere sotto controllo le anime dei fedeli. Così, mentre le passiones dei primi martiri cristiani abbondavano di sogni e visioni, i padri ufficiali della Chiesa sostengono l’esigenza di una perpetua vigilanza che impedisca al mondo delle immagini di prendere il sopravvento sul fedele. Nasce cosi quella che Le Goff ha definito “una società dai sogni bloccati”. Il vissuto onirico non è più, come ai tempi dell’incubazione, un’esperienza reale da condividere, ma viene relegato allo spazio privato della non-verità. Diversi motivi contribuiscono a questa trasformazione: oltre alla già citata necessità delle autorità ecclesiastiche di controllare le anime dei fedeli e di mantenere il proprio ruolo di mediazione tra uomo e Dio, il legame costitutivo del sogno e dell’immaginazione con la sfera del corpo e del desiderio sessuale.