in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 4, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto
L’intento del mio neologismo medi-cine-terapia è quello di combinare – lacaniamente se volete – l’effetto mediatico (e dunque anche del godimento) insieme a quello terapeutico della visione filmica.
Film come medicine, compresse effervescenti ipnotiche che si sciolgono in non più di un paio di ore, farmaci psicologici quasi senza effetti collaterali e privi al 99% di controindicazioni. La pillola che vorrei suggerirvi quest’oggi è una lezione cinematografica a proposito della comunicazione. Sono certo che il pubblico nato intorno agli anni ’50 del secolo scorso avrà senz’altro visto questo film. Per tutti i più giovani mi auguro che questa occasione sia propizia per prendere visione del film in questione, reperibile per un pugno di euro in dvd. Onestamente non so dirvi quanto un film possa essere terapeutico senza una sana, autentica psicoterapia svolta insieme ad un altro essere umano. Personalmente credo che migliaia di buoni film “terapeutici” non valgano il confronto dialettico analista-paziente. Sono però convinto che una psicoterapia nella quale sia presente la prescrizione di film aderenti alle tematiche conflittuali del cliente, come a volte mi capita di fare con i miei pazienti, consegnando loro un film di complemento alla terapia, un contorno extra insomma, non guasti ed anzi contribuisca a sviluppare ed arricchire il nostro lavoro.
Fatte queste premesse non mi resta che raccontarvi per sommi capi la trama. Il film in questione s’intitola Harvey, è stato scritto dal premio Pulitzer Mary Chase e diretto dal regista Henry Koster nel 1950.
Il protagonista si chiama Elwood P. Dowd ed è interpretato da James Stewart. Mister E. P. Dowd è l’unico a vedere Harvey, un coniglio bianco alto quasi 2 metri, del quale è compagno inseparabile. Questa stranezza lo rende inviso a tutti i benpensanti, a cominciare dalla sorella e dalla figlia di questa, che occupano però la casa di proprietà del fratello e zio che ha ereditato tutto dalla madre.
Questa dolce, innocua follia spinge le due megere a far rinchiudere il povero Elwood in un manicomio con l’intenzione di fargli praticare dei farmaci per “curare” questa allucinazione.
La ragione per cui ho scelto questo film come argomento della mia breve conferenza all’ottavo convegno del Centro Studi sulla comunicazione consiste nella mia convinzione che in questa storia c’è molto da imparare sulla psicologia della comunicazione. Credo che la pellicola rappresenti una salutare pillola da assumere per riconsiderare il nostro comportamento nel mondo.
Per fare in modo che la pillola della medi-cine-terapia funzioni, bisogna che facciamo entrare dentro di noi i personaggi del film, a cominciare da quello principale interpretato da James Stewart.
Vediamo allora chi è il candido giovanotto che parla al coniglio invisibile a tutti, tranne che a lui. Mr. Elwood sembra che non abbia alcun lavoro tranne quello di andare in giro con il suo compare dalle lunghe orecchie, recandosi di preferenza nei bar dove trascorrono la maggior parte del tempo bevendo Martini cocktails.
Un’altra attività di Mr. Elwood è quella di dare retta a chiunque e di interessarsi con affetto ai problemi e alla vita degli altri, con particolari preferenze verso i barboni, le persone semplici ed anche ex- galeotti.
Si profila quindi il ritratto di un esperto della comunicazione, che grazie all’amicizia con il fantomatico coniglio riesce a stabilire contatti pregnanti con gli esseri umani mediante vari escamotages vincenti: la dolcezza, l’assenza di malizia, la generosità (quest’ultima intesa sia in senso economico che come donazione di sé). E infatti alla fetta di umanità più sofferente prediletta da Elwood la stramberia del coniglio risulta molto più facile da gestire e accettare. Non accade lo stesso invece per la sorella e sopratutto per la nipote le quali temono l’emarginazione da parte della borghesia che frequentano a causa di questo “zio indegno” (il riferimento ad un’altra giuggiola di medi-cine-terapia, il film omonimo di Franco Brusati, del 1989 è puramente voluta).
C’è un particolare che a me sembra di enorme importanza nel modo di fare di Elwood: a qualunque persona egli incontri, dal postino al tassista, dall’infermiere del manicomio allo psichiatra, fino ad un occasionale avventore del bar, egli consegna gentilmente il suo biglietto da visita, che viene quasi sempre respinto o accettato con bonaria sufficienza.
I tentativi di comunicazione del tenero amico del coniglio sono dunque frustrati e spesso rifiutati, finchè non vengono capiti nella loro intima e profonda sostanza, come accade alla moglie del primario della clinica che rimane stregata dal comportamento angelico dell’uomo che vede e parla al coniglio, ma che sa sopratutto parlare agli uomini con l’esperanto dell’amore, dell’accettazione dell’altro e dell’accoglimento del diverso, specie se sofferente. Ma non è questa in fondo una metafora di un buon lavoro psicoanalitico? Quest’uomo non riesce a sopportare troppa realtà, come l’uccello di T. S. Eliot (Via, via – disse l’uccello – il genere umano non può sopportare troppa realtà, Quattro Quartetti, I). Ma in questa vicenda cinematografica oltre che il poeta inglese viene tirato in ballo anche un poeta irlandese, W. B. Yeats, per la sua passione verso gli spiriti e i folletti. Infatti a un certo punto del film Stewart definisce chiaramente Harvey come un pooka, che è un nome celtico mitologico, riferito a spiriti buoni sotto forma animale, sempre molto grandi che appaiono in luoghi diversi di tanto in tanto, ora all’uno ora all’altro umano; sono creature maliziose ma benigne, amantissime del bere e dei pazzi.
Lentamente in questa deliziosa commedia degli equivoci, non si capisce più chi siano i pazzi perché ciascuno esprime la propria follia personale. Capita quindi che la sorella sia rinchiusa nel manicomio perché appare ai medici più squinternata del fratello, che viene lasciato libero. Così potrà invitare tutti da Charlie, il suo bar abituale, compreso il guardiano del manicomio non prima di averlo munito della sua carta da visita ed essersi attardato e complimentato con lui per l’invenzione del cancello semiautomatico del manicomio. Comprendere, amare, significa comunicare. Non esiste comprensione laddove non esiste comunicazione.
Abstract
L’autore dell’articolo (un esperto di “medi-cine-terapia” e appassionato di “film che curano”) propone una visone cinematografica “terapeutica” utilizzando un vecchio film, “Harvey”, del 1950. Questo film – propone l’autore – potrebbe aiutarci, come un buon farmaco, a migliorare le nostre capacità psicologico-comunicative. Il protagonista, interpretato da un James Stewart in stato di grazia, è unico a vedere un grande coniglio bianco e questa stranezza lo porta in manicomio per mano di una sorella e una nipote perbeniste. Grazie a questo animale, però. Ogni personaggio della vicenda – incluso lo spettatore – imparerà una lezione d’amore.