Grunberger e la deviazione di Ferenczi

Tratto da: Giorgio Antonelli, Il mare di Ferenczi. La storia, il pensiero, la vita di un maestro della psicoanalisi, Roma, Di Renzo Editore, 1996.

La questione della «malattia» di Ferenczi ovviamente non si chiude sull’armistizio siglato da Balint e Jones. Né si può dire che i tentativi messi in atto da Fromm per riabilitare Ferenczi abbiano registrato un successo definitivo.

No, la questione sarà ancora ripresa e continuerà a rivelarsi problematica. Un esempio. In occasione dell’incontro su Ferenczi svoltosi alla Società psicoanalitica di Parigi il 18 dicembre 1978, Béla Grunberger presenta un contributo sulla, così la chiama, «deviazione ferencziana». Ora, la deviazione di cui parla Grunberger non riguarda tutto Ferenczi, che anzi viene variamente apprezzato (come «clinico geniale del corpo» ad esempio), ma il periodo che va, come recita il titolo del contributo, dalla tecnica attiva alla confusione delle lingue.

Intanto, per deviazione, in generale, Grunberger intende la presenza di certi parametri quali la negazione di aspetti della sessualità infantile, l’attribuzione dei conflitti ai soli fattori esterni («exogénéité»), la negazione delle pulsioni. Tutte le dissidenze, secondo Grunberger, sono materne, vale a dire «regressive», il che spiega anche la loro capacità di attrazione. La storia della psicoanalisi ne offre un ampio ventaglio. Grunberger postula una sequenza secondo la quale alla base della dissidenza si collocherebbe un’angosciosa insicurezza, la quale provocherebbe il rifiuto del livello edipico e dei suoi derivati (Super-Io, senso di realtà) e condurrebbe il dissidente a rifugiarsi in seno alla grande madre (Grunberger non impiega il termine «grande madre», che è junghiano, tuttavia vi si avvicina molto). Tale ritorno alla grande madre, tale fantasia fondamentale sono esplicitati da Ferenczi in modo inequivocabile nel suo «Thalassa».

I parametri individuati da Grunberger dichiarano devianti dalla psicoanalisi, dalla purezza della psicoanalisi (da quello che anche Freud aveva chiamato, e con riferimento a Ferenczi, «puro oro analitico») autori diversi come Jung e Lacan e, potremmo tranquillamente aggiungere, Rank. Ma il punto dolente è che la cosiddetta deviazione viene ricondotta, ancora una volta, e a tale distanza di anni, a una nevrosi di transfert, overo a una «regressione profonda». D’altronde la stessa Janine Chasseguet-Smirgel aveva considerato l’impiego del sintomo in sede di tecnica attiva da parte di Ferenczi, ovvero l’intensificazione della tensione o anche, nei termini di Grunberger, l’«utilizzare come fattore benefico ciò che è essenzialmente negativo», alla stregua d’una difesa maniacale . Si tratta d’una tesi cui Grunberger riconosce espressamente il proprio debito.

Più circostanziatamente si esprime Grunberger il 17 gennaio 1984 in occasione di una conferenza alla Società psicoanalitica di Parigi che reca il titolo Della purezza e nella quale riprende il discorso su Ferenczi. Qui la «regressione profonda» diventa «regressione finale». La fase terminale della teoria di Ferenczi, scrive Grunberger, «sopravviene quando egli è colpito da una fatale malattia che sembra aver comportato una regressione a quell’Io bipolare di cui ho parlato poc’anzi: ricerca di purezza da una parte, proiezione dell’analità dall’altra».

Ciò significa che la concezione ferencziana del bambino puro implica una richiesta di tenerezza e, a ridosso di questa, una conferma narcisistica. Da tale «fantasia della monade» Ferenczi sarebbe stato dominato a partire dalla sua regressione finale. «Era dominato» scrive Grunberger con riferimento allo psicoanalista ungherese «dalla fantasia di una monade di purezza narcisistica, con la concomitante proiezione dell’aggressività rinforzata dalla frustrazione» .

Una disamina dei due saggi grunbergeriani è stata fatta da Chertok e Stengers, i quali intanto contestano una spiegazione, come quella di Grunberger, «che fa risalire le idee di Ferenczi al suo stato di salute». Contestano inoltre, come esempio di «uso illegittimo della psicobiografia», l’assunto grunbergeriano secondo cui la comparsa della tecnica attiva segnerebbe «l’inizio dell’alterazione dell’attività scientifica di Ferenczi». Grunberger, scrivono Chertok e Stengers, «vede in essa un fenomeno di regressione che coinciderebbe con una tireotossicosi insorta nel 1917» . In ultimo viene stigmatizzato l’impiego del termine «dissidenza», termine che non appartiene, come fanno notare i due critici di Grunberger, al lessico della scienza, ma a quello della politica e della religione. Il che chiude il cerchio inaugurato da Fromm.

Anche accettando il deleterio psicobiografismo di cui Chertok e Stengers rimproverano Grunberger, vale la pena si osservare che le diagnosi grunbergeriane e quelle jonesiane non collimano. Per Grunberger, d’accordo con Chasseguet-Smirgel, Ferenczi è un maniaco-depressivo (mentre Reich è un paranoico). Grunberger è particolarmente impressionato dal fatto (lo chiama «estroiezione allucinatoria») che l’ultimo Ferenczi «fachirizzi» la psicologia, ritenga cioè possibile la «produzione occasionale di un organo per l’outlet», ovvero adatto alla liberazione di una «tensione deleteria, e confronta l’incresciosa affermazione con quella altrettanto incresciosa dell’ultimo Reich, il quale asserisce di aver visto il colore dell’orgone e che quel colore è il blu. Jones, che del resto s’appoggia a Freud, parla invece di paranoia e di crisi omicide. Ma il bello è che anche Ferenczi si descrive come paranoico. Come dire che Freud, prima, e Jones, poi, con le loro appendici (ovvero gli psicoanalisti che hanno creduto al loro racconto) non scoprono nulla di nuovo. Quando Grunberger parla dell’antica fantasia inconscia di ritorno al seno materno, così genialmente sublimata in «Thalassa», non si chiede se Ferenczi con la fantasia abbia consapevolmente giocato, abbia in altri termini intrattenuto quelle che Jung chiamava «Beziehungen», relazioni. Neanche Grunberger, insomma, scopre, in questo caso, qualcosa di nuovo su Ferenczi.

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Giorgio Antonelli