in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 55, Roma, Di Renzo Editore, 2004 – Estratto
Godere è infinito. Godere è un infinito, la parola senza tempo, la parola senza confini, la gioia che circonda il dolore. Godere non è un sostantivo. Godere non è il godimento. Non è sostanza. Non si regge su nulla e anzi toglie ogni sostegno. Godere toglie l’Io. Toglie l’Io da ogni sostegno. Toglie l’Io da ogni sua pretesa anaclitica, cioè di appoggio su se stesso, sui propri confini e sulla propria angoscia: difese, resistenze, immaginarie certezze. Il fondo originario del godere è veramente senza fondo. È sospensione assoluta, sospensione sciolta da ogni contingenza. Godere è il verbo che immette nell’infinito. Godere fa entrare nel “senza confini”. Godere fa entrare in quell’En Sof che si è pensato dalle parti dei cabalisti medievali e che potremmo ritradurre appunto come il “senza confini” da cui emana, fluendo, l’albero “senza confini” delle sefirot “senza confini”, l’Adam qadmon. Godere è un’esperienza transpersonale, un processo cosmico, un far parte dell’universo nel suo pulsare, un evento che ci fa accadere nel senza tempo, che è tutto il tempo, di un luogo altro, che è tutti i luoghi.
Se godere è infinito, godere è Dio. Il godere di Dio si traduce, per noi, nell’essere stesso del mondo. Se Dio è dovunque e, secondo la Kabbalah lurianica, si è dovuto contrarre per creare il mondo, allora noi occupiamo il luogo del godere di Dio. Tale assunto armonizza con le tesi dei cabalisti (e non solo) secondo cui il basso ripete l’alto e influisce sull’alto, fa flusso con l’alto, col divino, col sefirotico. Il momento del godere coincide con quello di uno svuotarsi che fa il mondo. Dove gode Dio, là deve esserci mondo, là deve avvenire l’Io. Che l’Io non avvenga dove gode Dio è quanto possiamo ridefinire come castrazione. L’Io è il servitore della castrazione. Quando entra in analisi non può farlo che come servo della castrazione. Quando l’Io serve, c’è un padrone che gode. Nel lessico della psicoanalisi quel padrone si chiama Super-Io. Altri lessici sono certamente possibili, dal momento che i confini godono dei confini, godono del loro moltiplicarsi e del moltiplicarsi dei loro nomi.
Che l’Io non avvenga dove gode Dio è quello che noi, terrenamente, chiamiamo mondo. Il godere perfetto significa l’assoluta messa tra parentesi del mondo, la sparizione del mondo for the moment o, meglio, l’essere il maschile e femminile congiunti a tutto il mondo, il loro pulsare col pulsare dell’universo, for the moment. Godere vale una sparizione e una totalità. Quella stessa che gli gnostici hanno chiamato pleroma, il tutto, il pieno che si compone di sizigie, coppie di eoni. Il pleroma gnostico significa il non esserci del mondo e della storia. In effetti, secondo la mitologia gnostica, il mondo e la storia hanno origine dalla colpevole fuoriuscita di un eone dal pleroma. Lo Yahweh dell’Antico Testamento è in realtà il Demiurgo, un Dio minore, il creatore imperfetto di un mondo imperfetto. Se pleroma gnostico e albero sefirotico sono senza confini, il Demiurgo introduce i confini. Veramente è il Demiurgo gnostico l’archetipo dell’Io.::
Che l’Io resista al godere è ben testimoniato dalla sua tristezza post coitum. Ferenczi parla di questa tristezza come di una leggera depressione e spiega il noto adagio omne animal post coitum triste come una reazione al fatto che l’Io si sarebbe spinto troppo in là nell’oblio di sé. Cosa significhi per l’Io spingersi troppo in là nell’oblio di sé lo dice bene Lawrence in due sue poesie in cui si tratta di un Io che, venendo meno a se stesso, è consumato e, per essersi consumato, guadagna il doloroso accesso alla fine del sapere, cioè al sapere senza confini, passaggio obbligato di ogni trasformazione.
Per Ferenczi la depressione post coitum costituirebbe anche una reazione al rimpianto narcisistico per la perdita dei succhi vitali. Tale rimpianto passerebbe attraverso un erotismo di tipo anale (l’idea di perdita e di cadere in miseria) che si oppone allo sperpero che deriva dall’eiaculazione. In altri termini si tratta di uno stare al di qua del confine (ritenzione) o di un far passare al di là del confine ciò che, per essere andato oltre, viene ritenuto perso e, come tale, rimpianto (sperpero). La tristezza che compare nel citato adagio implica insomma la consapevolezza del confine e inchioda, per ciò stesso, l’Io.
La questione dello “sperpero che deriva dall’eiaculazione” viene riconsiderata un anno dopo da Freud in termini di una certa corrispondenza tra l’“espulsione della materia sessuale” e la separazione del plasma germinale dal soma. Da questa corrispondenza deriverebbe, secondo Freud, la somiglianza tra orgasmo e morte, somiglianza che, negli animali inferiori, diventa coincidenza. Una volta estromesso l’Eros, scrive Freud, “è lasciata piena libertà alla pulsione di morte di attuare i suoi propositi”. Se, stando a Bataille, “dell’erotismo si può dire, inanzitutto, che esso è l’approvazione della vita fin dentro la morte”, si può ben comprendere come l’Io possa nutrire non poche remore a riguardo dell’Eros, dell’orgasmo, dello sperpero che deriva dall’eiaculazione. Non sorprende che Reich abbia potuto parlare di paura dell’orgasmo come di un equivalente della paura di morire.
Questo apparente paradosso, per il quale si può avere paura del piacere, non va spiegato soltanto, come anche è legittimo fare, e come ha sostenuto Lowen, a partire dal senso di peccato e di colpa, a meno che non s’intenda legare il senso di colpa anche, e forse soprattutto, a qualcosa di sommamente (starei per dire cosmicamente) individuale, ad una colpa radicale che l’individuo avverte nei confronti di se stesso, nei confronti delle proprie sostanze vitali. Se assumiamo questo punto di vista, allora la paura dell’orgasmo si lascia spiegare anche alla luce delle considerazioni ferencziane sull’erotismo anale quale ritenzione vitale nei confronti di uno sperpero mortale rappresentato dall’eiaculazione. È nei confronti di questo sperpero che l’individuo può sentirsi in colpa. È nei confronti della propria rinuncia a godere che l’Io si sente in colpa.
Miller su Lacan e il godimento
Il godimento non ha bisogno di perdere i confini. Il godimento può prescindere dall’identificazione. Il godimento astrae dal pulsare dell’universo e non vuole saperne di identificazioni con i processi cosmici. Il godimento è ad esempio quello di cui parla Lacan. Il quale, là dove sostiene che non c’è rapporto sessuale, appunto questo intende, l’esserci di un godimento che il primo dei suoi allievi, Jacques-Alain Miller, non ha mancato di definire idiota e solitario. Non c’è rapporto sessuale e, dunque, c’è godimento. C’è godimento e, dunque, non c’è coniunctio. Si tratta qui di quello che Miller declina come il sesto paradigma del godimento, paradigma che definisce “il non rapporto” e che rinviene nel seminario Ancora, il ventesimo tenuto nel 1972-73 da Lacan. In questo seminario, secondo Miller, Lacan dimostra che il godimento è fondamentalmente Uno e che, insomma, fa a meno dell’Altro. La ragione di ciò risiede, stando a Lacan, nel carattere fallico del godimento e in quello essenzialmente narcisistico dell’amore. Quanto all’amore oggettuale, dice Lacan, son tutte ciance.
Il godimento, nella misura in cui è sessuale, è fallico e, per questo motivo, non si relaziona all’Altro. Lacan lo dice anche diversamente: “il godimento fallico è l’ostacolo grazie al quale l’uomo non arriva a godere del corpo della donna, precisamente perché ciò di cui gode è il godimento dell’organo”. D’altro canto, mentre l’uomo non arriva a godere del corpo della donna, e questo, per le ragioni dette, non gl’impedisce comunque il godimento, la donna arriva a godere di Dio. Con espressione degna di un maestro della Kabbalah Lacan si domanda se la faccia di Dio (definita sefiroticamente, con espressione degna di un cultore di En Soph, una faccia dell’Altro) non sia sostenuta dal godimento femminile. Il godimento femminile insomma, diversamente da quello maschile, si troverebbe, nonostante (nonostante?) la donna non se ne sappia nulla, in relazione con una faccia dell’Altro, cioè con Dio. Non c’è rapporto sessuale significa dunque anche questa divaricazione di godimenti, con l’uomo ripiegato su se stesso, idiota e solitario, e la donna, che prova un godimento di cui non sa nulla se non che lo prova, a sostenere la faccia di Dio.
Lacan su desiderio e amore
Quale lezione si ricava dal Simposio di Platone? La lezione di un’originaria, strutturale discordanza tra desiderio e amore. Questo, essenzialmente, vuole significare Lacan quando afferma che non c’è rapporto sessuale. Perché, certamente, il rapporto sessuale c’è, o almeno sembra esserci, illude i due partner della propria esistenza (e del resto ci riesce anche con irrisoria facilità), ma in esso, nel suo illusorio abbraccio, l’amante non incontra mai l’amato. Non ritrova mai l’amante, nell’amato, l’oggetto, l’àgalma, l’oceano, che muove il suo desiderio. Così, mentre l’amante ama, il suo desiderio se ne sta altrove, se ne corre altrove, alla ricerca di un oggetto insistentemente spostato in un al di là che, per quanto vicino, per quanto prossimo, non cessa di essere al di là. Dove l’amore unisce, il desiderio sposta. Dove l’amore di Alcibiade incontra Socrate, Socrate rimanda Alcibiade all’altrove del suo desiderio, desiderio che non ha nulla a che vedere con Socrate. Quello di Alcibiade è amore di transfert, conclude Lacan, e allora il vero merito, il solo merito di Socrate è quello di rimandare Alcibiade al suo vero desiderio: “un amour dont on peut dire que le seul mérite de Socrate est de le désigner comme amour de transfert, et de le renvoyer à son véritable désir”.
Tra l’amante e l’amato non c’è coincidenza. In questa disarmonia strutturale risiederebbe, secondo Lacan, il problema dell’amore, problema che rinviene tutti i suoi specchi nell’analisi che, del resto, ne è un derivato. Da questa disarmonia strutturale, insita cioè nell’essenza dell’amore (che è unitiva, metaforica) e in quella del desiderio (che è metonimica e cioè dettata da mancanza e dunque votata allo spostamento), non soltanto deriva la formula non c’è rapporto sessuale, ma anche l’altra, non meno impietosa, tesi di Lacan secondo cui amare significa dare ciò che non si ha. Anzi, per completare il circolo, occorrerà dire che amare significa dare ciò che non si ha a chi non lo vuole, perché l’àgalma, l’oggetto perduto, l’oggetto che veramente manca, e che l’amato non ha, se ne sta comunque altrove, rinviato ad altro oggetto e, ancora, ad altro, lungo una catena poco aurea e molta opaca di rimandi il cui termine, non essendoci, non appare possedibile. L’oggetto che viene dall’amato, insomma, se pure viene, non coincide, non può coincidere mai con quello che l’amante veramente vuole. Di conseguenza quello che all’amante viene dall’amato, se è qualcosa, è comunque qualcosa che l’amante non vuole.
Il desiderio accende un gànos che l’incontro con l’amato costitutivamente, strutturalmente delude e sposta altrove. E, tuttavia, nella formula lacaniana, che vuole l’amore coniugato a un dare ciò che non si ha, manca qualcosa, manca un termine, un termine che nella Kabbalah è stato convenientemente definito. Quel termine suona “in terra”. Amare è, sì, dare ciò che non si ha, ma occorre aggiungere: ciò che non si ha in terra. Ciò che l’amante non vuole coincide allora con ciò che l’amante non gli dà in questa terra. È appunto perché l’amato gli dà la terra, soltanto la terra, che l’amante non la vuole. L’amante, proprio perché spinto dal desiderio, informato dal desiderio, dal desiderio che non viene dalla terra, ma dall’alto, dalle stelle, che queste ci siano o no, che queste siano o no visibili, non può volere soltanto la terra. Che esista un aldilà di questa terra, e che quell’aldilà possa ridefinire ogni discordanza strutturale, Lacan sembra non saperlo. Di quell’aldilà, di quella non terra Lacan comunque mostra di non sapere che farsene. Cosa potrebbe farsene, Lacan, dell’oceano di Ferenczi? Potrebbe forse farsene qualcosa, come abbiamo visto, se facesse ruotare tutto il discorso declinato al maschile (il discorso che rimbalza da Alcibiade a Socrate e da Socrate ad Alcibiade) lungo l’asse, che pure è stato lui a introdurre, di quel godere della donna che consente l’accesso a un volto di Dio.