Editoriale
La tematica dell’abbandono è così forte e presente, nella vita di ciascun essere vivente, da meritare un numero monotematico del nostro Giornale Storico. Continuamente, perennemente direi, l’abbandono ci accompagna durante le nostre esistenze, tanto da diventare quasi la colonna sonora della nostra breve permanenza sulla Terra. Si nasce e si abbandona l’utero materno. Ugualmente la madre perde il feto che ha covato nel ventre per circa 38 settimane e deve abituarsi a questa perdita, anche se si configura nella conquista, da parte del neonato, di una prima autonomia. La prima esperienza è una perdita, scrive Lou Andreas Salomé. È un distacco necessario, una separazione indispensabile, che, se non avviene, conduce a morte sicura. Durante la nostra avventura umana sperimentiamo, inesorabilmente, separazioni continue. Passiamo dal seno materno all’alimentazione pediatrica, per poi giungere alla autonomia nutritiva. Affrontiamo distacchi da luoghi che riconosceremo come nostre appartenenze soltanto anni dopo: la culla, il letto dei genitori. Lasceremo la casa dove siamo nati per studiare all’università o per lavorare per guadagnare un salario personale, non per desiderio di abbandono, ma per necessità maturative. Si tratta di un abbandono salutare, ma è pur sempre una partenza, un addio. Tanto che quelli che rimangono nella casa natia, difficilmente maturano, se non operano il taglio necessario del cordone ombelicale simbolico che li lega a rituali e idee consuete e tradizionali, resteranno imbrigliati nella tela di un ragno che li terrà in ostaggio, poi, sempre più a lungo. La maturità è l’obbiettivo principale della nostra vita, tendere alla maturità relazionale (con se stessi e con gli altri), professionale e sentimentale, è lo sforzo che caratterizza ogni essere umano che si reputi tale. Shakespeare dice ancora di più (come sempre): L’uomo deve sopportare il suo venire al mondo come il suo andarsene, la maturità è tutto. Dunque, la maturità finale ci impone di affrontare il problema della morte. Non una, ma mille volte. Dobbiamo patire la perdita delle persone a noi più care, il nonno, la nonna, un padre, una madre, a volte di un fratello o una sorella, di un amico. Insomma, le possibilità sono diverse, ma è difficile, impossibile mancarne qualcuna. Peggio ancora se si ha un figlio o una figlia destinati a morte prima di noi. Insopportabile, ma vero. Dunque l’abbandono segna il nostro cammino sempre, imperscrutabile, crudele, ingiusto, come le capricciose divinità greche. La fine di un amore incide su ciascuno di noi, sia che rappresenti una crescita per chi abbandona, come ci ha insegnato lo psicoanalista fondatore del nostro Centro Studi, Aldo Carotenuto, sia che stabilisca un momento di riflessione sul tradimento per chi è abbandonato, e dunque un’occasione di arricchimento interiore, anche per quest’ultimo. Sempre, comunque, conviene, è obbligatorio, dare un senso a ciò che ci accade. Questa è la scoperta di una delle menti più illuminate del Novecento, il medico che ha aperto il sipario al teatro dell’inconscio, Sigmund Freud. Tutti i suoi discepoli, Jung in testa, non hanno potuto fare altro che condividere e inchinarsi alla sua straordinaria e rivoluzionaria scoperta. Anche questa ferita narcisistica per il genere umano ha significato l’abbandono di vecchie idee, al pari delle lacerazioni lasciate da Copernico e da Darwin su come gira il mondo e da dove veniamo. La conquista di nuovi canali e strumenti comunicativi ci ha portato ad abbandonare i vecchi telefoni immobili e ad entrare in universi virtuali. Intorno a noi oggi vediamo – assistiamo impotenti – a generazioni di giovani e giovanissimi paurosamente tecnologizzati. Sono forse i nostri figli così terrorizzati dall’abbandono tanto da non riuscire a perdere il contatto con un telefono di ultima generazione o un ipad o un computer portabilissimo neanche per un istante? Conviene riflettere su questa onfalodipendenza cybernautica. La paura dell’abbandono li assilla a tal punto da ricorrere a ricerche di partner ideali, tanto per non incorrere nella sconfitta provocata da stupidi colpi di fulmine? Io credo, temo che stiano perdendo qualcosa. Si proteggono da ogni sorta di abbandono, incluso quello amoroso, o forse per prima cosa da quello. I molti giovani sofferenti che oggi frequentano i nostri studi, vivono in un deserto amoroso, dove li hanno relegati i genitori e le istituzioni, ma dove sono finiti anche per incapacità di ribellione e di indignazione contro il silenzio affettivo che li circondava. In pratica non riescono ad affrancarsi dall’assenza di passioni, e sono prigionieri di un pozzo buio, abitato da genitori depressi o maniacali, schiavi a loro volta di un potere opprimente e tirannico da loro stessi costruito e osannato, prigionieri di un mondo consumistico, opportunistico, opulento e falso.
Nel suo breve e intenso articolo, Simonetta Putti ci parla dell’abbandono attivo, sospeso tra ossimoro e aporia. La neo Vicepresidente del CSPL, forte della sua esperienza personale analitica con Aldo Carotenuto e con un lungo e proficuo vissuto professionale nelle stanze di Psiche, ci dimostra come e quanto possano diventare benefici e progettuali il momento critico della perdita e l’apparente passività dell’abbandono, visti soprattutto nel temenos analitico, che, come tutti gli psicoanalisti sanno, è anche la vita, oltre che per la vita.
Roberto Cantatrione ci racconta una storia emblematica, che l’autore ha avuto modo di discutere a lungo e con empatia insieme a un suo interlocutore dell’Anima, buon conoscitore della psicologia femminile. Con riferimenti alle pubblicazioni di Neumann sulla personalità della donna, i lettori troveranno una storia tipica di imbrigliamento madre-figlia, con le considerazioni necessarie a capire quanto si potrebbero evitare o ridurre i disastri di educazioni e comportamenti malsani.
In piena risonanza con le radici fondanti della nostra Associazione, quelle letterarie, ci lasceremo condurre da Benedetta Rinaldi sui sentieri della perdita e del disamore, del dolore e della solitudine, e della loro possibile trasformazione, nei libri di Murakami Haruki, uno dei più famosi e talentuosi scrittori giapponesi contemporanei, che ha vissuto per un certo tempo anche in Italia (che immaginiamo sia una terra che abbia “abbandonato” con un po’ di malinconia, dato il riconoscimento di molla creativa da lui stesso riconosciuto al nostro Paese!).
Nel suo Abbandoni d’amore, Luciano Fargnoli descrive psicologicamente tre modi dell’agire abbandonico: sia come azione che si compie nei confronti di qualcuno, sia rispetto a un’ideologia e infine nei riguardi di un luogo. Anche qui, come nello scritto di Putti e di Caruso (non a caso tutti e tre “discendenti” carotenutiani) compare la presenza dell’Abbandono alla divina provvidenza, un testo promosso alla pubblicazione italiana da Ernest Bernhard, maestro di Aldo Carotenuto, e che tutti i futuri analisti che hanno frequentato nel Novecento via Gregoriana e via Gallonio a Roma, non possono ignorare.
L’abate De Caussade lo ritroviamo anche nell’articolo Etica, biopolitica e ontologia dell’abbandono di Giuseppe D’Acunto, che ci illumina filosoficamente sul tema, illustrandoci il pensiero del poeta e filosofo Roberto Carifi e del filosofo francese Jean-Luc Nancy. Le sue riflessioni sui due pensatori a proposito di poeti e scrittori ci hanno fatto subito pensare alle bellissime considerazioni di George Gadamer, esposte nelle sue Interpretazioni di poeti. I filosofi, nostri cugini primi, aprono sentieri nella conoscenza, spesso guidati da una stella cometa che è la poesia, ed in questa affascinante galassia spazia l’articolo.
Virginia Salles, che ha affermato in una delle riunioni del CSPL di non passare un giorno senza leggere qualche pagina della Cabala (e sono certo che non ce ne vorrà per questa dolce rivelazione), ci racconta come “l’archetipo dell’Abbandono è il paradigma stesso della nascita umana e dell’esilio da questo giardino incantato, al quale per tutta la vita ci struggiamo di poter tornare”. Un bell’esercizio di rianimazione il suo scritto, per tutti i cuori spezzati e abbandonati, che capiranno, leggendolo, di essere i recipienti più perfetti dell’amore e della maturità.
Per il suo contributo, Antonio Dorella ha coniato un nuovo complesso, quello di Yahwè. Si tratta di un gesto di auto sacrificio fino alla morte, come quello deciso da padre Ernesto Buonaiuti, martire volontario di questa specialissima scelta di abbandono. Il titolo latino, si riferisce alla interdizione vaticana dell’ecclesiastico, appunto vitando, soggetto da mettere al bando, da evitare. Così fecero la Chiesa e le istituzioni concordatarie del fascismo, nei confronti di questo coraggioso prete, il cui gesto verrà riletto, sotto nuova luce, dieci anni dopo la morte (come di prassi!), dal Concilio Vaticano II. Come psicoanalisti, ci consola e ci inorgoglisce il fatto che Buonaiuti abbia contratto un sano contagio (e speriamo anche conforto), ad Eranos, dal pensiero junghiano.
I tre volti dell’abbandono: essere abbandonati, abbandonarsi, abbandonare, vengono declinati da Luisa De Paula, che dipinge la sua tela mescolando colori filosofici, mistici e romanzeschi, alla luce del pensiero nietzschiano sulla morte di Dio e dei fulmini psicoanalitici sulla conseguente morte dell’io.
L’esperienza dell’abbandono e della sofferenza che ne consegue, può essere anche un dono, secondo le riflessioni di Alessandro Uselli. L’abbandono non si configura soltanto nel più famoso dei suoi ritratti, quello amoroso, ma in qualunque esperienza che sia foriera di una crescita umana e, naturalmente, la condizione ideale per sperimentare con vera introspezione tutte le facce dell’abbandono, è l’avventura psicoanalitica.
Avendo assistito, chi scrive, a una celebre e spettacolare difesa di Paolo e Francesca, avvenuta a Rimini e condotta dall’avvocato psicoanalista Aldo Carotenuto, che incantò il pubblico e i giudici con la sua poetica arringa, abbiamo, con sincero gusto, letto in anteprima l’articolo di Marina Malizia, Abbandonare Francesca, dove l’autrice propone un’idea controcorrente nei confronti di Giovanni Gianciotto Malatesta, marito di Francesca. Rifletteranno dunque i lettori su questa inusitata versione di Gianciotto, esecrabile femminicida ante litteram, sì, ma per amore, non soltanto per disonore. Se la tesi di Carotenuto che udimmo nel giugno 1992 fu che Francesca “pur disonesta quando sposò il Gianciotto senza amore, si riscattò facendo l’ amore con Paolo, e che insomma si trattò di un amore impossibile e trasgressivo ma legittimato dall’onesta’ dei sentimenti”, sono certo che il padre fondatore del CSPL loderebbe senz’altro il postumo elogio – scritto da Marina Malizia – non dell’assassino, ma soltanto dell’amante abbandonato e disperato.
L’abbandono può essere, secondo Ferdinando Testa, una occasione di apertura verso la dimensione del mistero e di impatto con la sfera spirituale. Con un occhio sempre attento alla clinica, Testa ci introduce nel labirinto dove è possibile trasformare le cose sconosciute e il dolore in possibili alleati. L’autore ci suggerisce che dobbiamo essere bravi nei momenti dell’abbandono ad amare e leggere gli eventi che ci vengono incontro come un destino da amare e non come una sorte da subire, senza mai dimenticare l’importanza terapeutica dell’universo onirico.
Negli ultimi vent’anni il CSPL si è occupato, nelle sue Conversazioni, dell’accoppiata Danza-Psiche. Accogliamo dunque con simpatia ed interesse il contributo, con eleganti passi, della psicologa nonché tango-terapeuta Valentina Bonaccio. Le sue considerazioni sono molto allettanti e istruttive, soprattutto perché si occupa di questa speciale cura con pazienti parkinsoniani. Questo articolo sarà presente nella sezione Argomenti insieme alla recensione del libro Mondi invisibili, Frontiere della psicologia transpersonale di Virginia Salles, scritta da Luciano Fargnoli e da Abbandoni teatrali, una breve recensione di Amedeo Caruso su uno spettacolo di Adriana Asti su testi di Jean Cocteau, visto a Spoleto all’ultimo Festival dei Due Mondi.
L’abbandono alla divina trance è il suggerimento che propongo nel mio scritto, forte di una magica esperienza maturata insieme al mio maestro (allievo del grande Erickson) di ipnoterapia Ernest Rossi, che continuo a stimare e a ringraziare sempre più, soprattutto dopo la deludente esperienza con un cosiddetto guru dell’ipnosi internazionale, dopo aver partecipato a un suo seminario svoltosi a Roma, non troppo tempo fa. Questo articolo vuole elogiare l’ipnosi psicoterapeutica, mai schiava del fenomenalismo e del baracconismo che, in questo campo, troppo spadroneggiano e dolorosamente avvelenano spesso le acque benedette della catarsi operata con le uniche, giuste finalità, squisitamente curative.
Questo numero della rivista non solo contiene opinioni psicologiche sull’abbandono, ma contiene i semi di una rinascita creativa e rivoluzionaria del nostro Centro Studi. I lettori attenti, quali sono di certo tutti quelli che ci seguono da vent’anni, si accorgeranno delle novità fin da questo numero, ma ne avranno una prova tangibile dal Giornale Storico di aprile 2014, coincidente con il Convegno Psicologia e Ironia.
Vi abbandoniamo, dunque, con il desiderio di non perdervi mai di vista, a questa dolce curiosità, e vi diamo appuntamento in primavera.
Il Direttore Amedeo Caruso