in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 44, Napoli, Liguori, 1998 – Estratto
Freud è un uomo apertamente ambizioso. Proust è un dandy che adula Anatole France.
Freud lotta con il tempo: ha fretta di dimostrare a se stesso e al mondo il proprio valore. Proust sembra infischiarsene del tempo, lo spreca tra cose futili, viaggi e vacanze in località alla moda.
Sigmund ha un’intuizione geniale: non è l’ipnosi che onsentirà di guarire i malati di mente, ma qualcosa che deriva da lei, il transfert. Occorre però situarlo nel tempo. Il tempo dell’analisi: lungo, faticoso, utile, indispensabile. Così emerge l’inconscio. Dal tempo del sonno, dal tempio del sogno. Dai tempi dell’analisi: precisi, rigorosi, rigidi. Dalle parole scandite dal tempo, che lente o veloci scivolano spesso nei lapsus. Dalle pause del ricordo, dai legami bizzarri della memoria che si chiamano associazioni verbali.
La scoperta di Marcel non è meno formidabile: il tempo comunque spesso non si perde. Il tempo può essere ritrovato per sempre. Come? Anche soltanto immergendo una madeleine in una tazza di tè, oppure allacciandosi le scarpe sul gradino di una chiesa a Venezia. Ecco le intermittenze del cuore. Ritrovare, recuperare in momenti inaspettati e magici tutto quanto si è vissuto inconsapevolmente, incerti di essere stati in quel tempo vivi sul serio. E sappiamo di esserlo stati davvero appena ci accorgiamo di questo stato di grazia che ci conduce al centro di un universo, personale e globale.
Dunque Proust e Freud hanno lavorato con lo stesso obiettivo: restituire all’esistenza umana la consapevolezza di vivere veramente il tempo, attraverso il tempo.