in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 2, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006
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Devo confessare che durante quello che noi psicoanalisti definiamo il periodo prodromico dell’analisi, cioè quei giorni, settimane o mesi che rappresentano l’aura della psicoanalisi, insomma quell’anticamera che si definisce preanalitica, l’intervallo che passa tra la decisione di andare in analisi e il momento in cui si entra in analisi gli avevo inviato qualche paziente che ritenevo potesse giovarsi del suo aiuto. Tralascio le ovvie interpretazioni (del resto giustissime) relative a questo comportamento, in quanto i pazienti inviati, sebbene necessitassero davvero di consulti psicoanalitici, rappresentavano anche simbolicamente tutte le parti di me che volevano andare in analisi da lui. Così, attraverso queste persone, ero venuto anche a conoscenza del suo onorario o forse dovremmo dire di quella che era la media del suo onorario.
Il mio futuro maestro aveva richiesto da me un onorario ben più alto di quello stabilito con i miei pazienti. Questa rappresentava davvero una “provocazione”. La mia interpretazione era che io pagassi molto se proprio desideravo avere lui come analista. Ho capito dopo che questa è una mossa sullo scacchiere dell’analisi che lo scacchista-istruttore può adoperare per valutare la motivazione di un apprendista-paziente. Questo sacrificio ha rappresentato anche la mia potenzialità a trasformarmi in paziente – apprendista stregone. Così ho fatto tesoro anche di questo insegnamento. Ho capito che le prime mosse sul campo dell’analisi vanno giocate anche con temerarietà, ben sapendo che, nella conduzione del viaggio analitico, è il cocchiere che decide quando e se frustare il cavallo, per giungere a destinazione insieme al paziente che siede in carrozza. È il conducente che si accorge se sta tirando troppo la corda o quando è il tempo di uno zuccherino per il quadrupede. Voglio dire con questo che, nel lavoro analitico, i patti e le decisioni possono essere sempre riesaminati insieme con il paziente. Questo significa che posso ridurre il mio onorario in occasione di notizie relative a difficoltà economiche di un paziente, come posso pattuire in anticipo un aumento della mia retribuzione, per esempio quando un giovane psicologo diventa un professionista che comincia a guadagnare, oppure se una disoccupata ottiene l’agognato posto di lavoro.
Dunque, dovevo pagare la metà del mio guadagno, dispormi ad una penale consistente per farmi psicoanalizzare. Accettai così il confronto senza naturalmente fare mai commenti su questo aspetto. Si trattava di una lezione ed appresi rapidamente a tenere conto di ogni insegnamento mi potesse pervenire dal mio analista. Avrei imparato in seguito che spesso gli psicoanalisti richiedono alte somme di denaro per farsi ripagare della noia prevista o prevedibile con un paziente che non gli sembra eccessivamente interessante, mentre invece non hanno bisogno di una forte ricompensa economica se si sentono intrigati dal caso clinico. Posso complimentarmi con me stesso, oggi, di essere stato capace di leggere in una chiave diversa il suo comportamento, come un invito a meditare su quanto costasse l’analisi, ed il modo principale consisteva nello sborsare una somma ingente. Non mi balenò in testa, per fortuna, che ai suoi occhi potessi apparire un caso facile, semplice, e routinario. Mi salvò non avere troppo idee o conoscenze riguardo al lavoro ed agli strumenti analitici. Questo indica anche come il soggetto digiuno delle tecniche analitiche ha meno sovrastrutture difensive nei confronti dell’opus analitico, che tradotto in soldoni significa lasciare scivolare più dolcemente la macchina terapeutica. Avrei imparato più tardi, ancora, che l’uso del denaro guadagnato in analisi rappresenta il modo in cui noi psicoanalisti consideriamo il frutto del lavoro dei nostri pazienti. Questo indica un’attenzione onesta e seria a quello che è il lavoro dei nostri pazienti. Ricordo sempre un mio giovane paziente che pagava il suo lavoro analitico, – che avevamo pattuito insieme – con lo stipendio che guadagnava andando a lavare i piatti due sere a settimana in un ristorante. I racconti relativi al tipo di esperienza vissuta insieme a molti extracomunitari che lavoravano nel retrobottega del ristorante, sono diventati per lui e per me poi oggetto di interessanti ed utili conversazioni. Io sapevo che lui faticava manualmente per pagarsi l’analisi e lui ha distillato materiale importante per scrivere. Dal mio canto io ho imparato da allora a considerare meglio il valore del denaro. Così è l’analisi: si lavora in due e bisogna imparare anche in due.
Potrei giurare che durante le mie letture adolescenziali l’incontro con il pensiero junghiano mi lasciò esterrefatto, tanto da subire una fascinazione così forte e profonda che decisi, stranamente ma saggiamente (oggi posso dirlo con sicurezza e soddisfazione) di seppellirlo come un tesoro al quale si dà un appuntamento più tardi. Questa era la mia isola del tesoro, verso la quale avrei navigato dopo il giro di boa dei trent’anni. Non fanno forse così anche i cani che, per istinto nascondono un osso per poterlo poi ritrovare nel momento del bisogno? In quel tempo ero alle prese con studi di greco e latino, scienze e letteratura, e davvero non rimaneva uno stralcio di tempo per studiare quello che avevo intuito che potesse diventare una fonte per me meravigliosa di conoscenza e probabilmente di lavoro.
Mentre spolvero questi ricordi sugli scaffali della memoria, mi sento quasi incredulo nel pensare che già intorno ai miei sedici anni riuscivo a leggere in lontananza qualche spiraglio di luce del futuro che mi attendeva.
Quando intorno al 1990 seguivo – senza che se ne accorgesse – le conferenze che Aldo Carotenuto svolgeva in giro per l’Italia, affamato come ero di conoscenza del suo pensiero e del suo lavoro, mi sono trovato di fronte a un pensatore formidabile, che argomentava a Bologna in modo celestiale e soave a proposito dei legami e delle connessioni tra psicologia e religione, denunciando l’anima naturaliter religiosa dello psicoanalista e poi, il giorno dopo, a Venezia argomentando sottilmente sulle caratteristiche mefistofeliche dell’amore, operando quasi un’apologia del tradimento.
Aldo Carotenuto non seppe se non molto più tardi che spesso, quando potevo, mi recavo ad ascoltare, il più possibile mimetizzato fra il pubblico o i suoi studenti nelle ultime file, le conferenze che teneva a Roma e in giro per l’Italia oppure le lezioni che svolgeva all’università.
Non a caso infatti dopo circa due anni di analisi feci questo sogno:
Stavo discutendo di nuovo la tesi di laurea in medicina e questa volta il relatore era lui e l’argomento era di carattere psicologico.
Io ero raggiante, e lui si trasformava nel preside della facoltà e mi conferiva la lode.
Bisogna dire che dopo questo sogno Carotenuto mi fece balenare in mente la possibilità di lavorare anche come psicoanalista.
Da quel momento i nostri rapporti diventarono molto più stretti ed io entrai nella seconda fase di apprendimento psicoanalitico che fu davvero memorabile in quanto in seguito alla comparsa di certi sintomi medici mi chiese di visitarlo. Da allora diventai ufficialmente il suo medico curante.
…
Intorno al 1991 dunque, quasi 15 anni or sono, quando per note vicende Aldo Carotenuto decise di uscire dall’Associazione Italiana di Psicologia Analitica da lui fondata, ricordo che non avevo parlato con lui di questa faccenda ed avevo apprezzato il suo silenzio riguardo alla storia, poiché ero stato accettato proprio quell’anno ai corsi dell’AIPA. Indipendentemente da ciò che accadeva, lui non mi aveva mai spinto a lasciare questa associazione. Mi resi da solo, però, che si trattava di un’istituzione dove la psicoanalisi veniva trattata – secondo me – a livello liceale e di fare ancora lo studentello non avevo proprio intenzione. Resomi conto poi dell’inutilità di appartenere a un’istituzione nella quale non mi riconoscevo, scoprii che la mia impazienza e la mia noia rispetto a docenti e argomenti erano giunte al limite. Mandai dunque un telegramma di congedo deprecando il comportamento ”maccartista” – insomma di caccia alle streghe – del consiglio direttivo. Mi convinse un sogno sul quale Aldo rise di cuore:
Sentivo una mano che mi strizzava i testicoli.
Comiciò così l’avventura del Centro Studi Psicologia e Letteratura.