in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 10, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto
La visione filosofica si distingue da quella ingenua dell’uomo di strada proprio in questo: rifiuta che il semplice evento della morte che accade un certo giorno a una certa persona costituisca uno strappo netto rispetto alla composita e trasmigrante vita dell’anima. Con ciò il filosofo rifiuta anche di dare importanza al momento del decesso. “Una sola è l’arte del ben vivere e del ben morire” scrive Epicuro un secolo dopo Socrate, intendendo con ciò che non possiamo rifarci isolatamente al morire senza considerare il vivere che ne è il presupposto. Naturalmente il discorso vale anche al contrario, e l’indissolubilità tra i due poli dialettici è ciò che distingue il discorso propriamente filosofico da quello del senso comune.
Secondo Epicuro le visioni dell’aldilà non rientrano nell’arte suprema del ben vivere e del morire, che deve anzi evitare vacue supposizioni se veramente intende aiutare l’uomo a vivere e morire bene. Ma questo è anche l’intento di Socrate. Il suo ragionamento è simmetrico e opposto rispetto a quello di Epicuro, e comunque non ha pretese di validità universale: coltivare il mito dell’Ade è utile a molti per indirizzare la vita dell’anima, per aiutarla a scorgere, con il tramite d’immagini sensibili, le forme dell’invisibile. Il mito viene in soccorso alle anime perché intraprendano un percorso di liberazione già qui, nella carne e sulla terra. I racconti poetici sul Tartaro e sull’Ade insegnano a concentrarsi sulle immagini interiori cui rimanda ogni oggetto sensibile, e orientano alla com-prensione di una dimensione più segreta e nascosta di quello immediatamente percepibile. È necessario capire ciò che ci sta intorno nel suo valore intrinseco, perché chi non sa scorgere la profondità dentro le apparenze tradisce la propria natura divina e impedisce alla verità di manifestarsi attraverso ciò che vediamo, tocchiamo, sentiamo. Indipendentemente dalla convinzione che un aldilà possa esistere o non esistere, l’attenzione e l’impegno del filosofo debbono rimanere concentrati sempre sul modo in cui l’anima si rapporta a se stessa e alle segrete risonanze che si accendono nel suo incontro ultrasensibile con il mondo. Il filosofo si deve sempre chiedere se la sua anima è risoluta o titubante, se si sta disperdendo mentre asseconda i capricci del corpo o se si è posta alla sua guida con coerenza e rettitudine. Il passaggio dalla vita alla morte non altera ma semplicemente rivela tali disposizioni dell’anima.
L’inferno e il paradiso sono già qui, oggi, a seconda che l’anima acconsenta alle insaziabili brame della carne o non si decida piuttosto ad assumerne la guida, facendone l’umile servitrice dei suoi nobili propositi. L’inferno è, si potrebbe dire, lo stato naturale dell’uomo che si rapporta alla materia oggettivata dei corpi come alla sua verità ultima. Viceversa, la capacità di servirsi dei sensi per rafforzare i vincoli segreti e impalpabili con il mondo extrasensibile ci consente già adesso di liberare l’anima da troppo angusti limiti della materia corporea, elevandola all’universale comunione del pensiero. Ecco l’anticipazione della ricompensa che attende al varco gli uomini buoni: ragionare insieme, accordando le anime in perfetta armonia. I filosofi pagani non potevano immaginare nulla di più gratificante e meritorio. Da sottolineare come la ricompensa coincida con il merito. Chi si dedica all’esercizio intellettuale nel suo tempo terreno approderà meditando all’aldilà, e qui troverà le condizioni ideali per meditare. All’opposto, chi ha fatto della propria esistenza terrena un giogo al cappio dei sensi e del desiderio non potrà certo sparare di liberarsi per effetto del semplice trapasso. Infatti, come potrebbe un’anima abituata alle catene volare alto superando il peso della materia?
Inferno e peccato capitale, paradiso e virtù: è in queste equivalenze che si sostanzia l’immaginario postmortale prima dell’avvento della cristianità. L’inferno si manifesta nella mancanza di fiducia nei valori più profondi dell’esistenza. Insorge quando non prestiamo ascolto all’invisibile che si manifesta ogni giorno e che ogni giorno c’incalza a una vita più piena, profonda e consapevole. Il peccato mortale è pensare che esista solo ciò che si può materialmente vedere, toccare, bere e trangugiare, o consumare nella sfera dei rapporti carnali come in quella del mercato. Non si tratta di moralismo ma di un richiamo alla dimensione dell’invisibile che fa da sfondo al visibile. Ciò che per le pupille umane è nebbia e mistero ha una sua concretezza non disgiunta dal nostro essere quotidiano. Si tratta allora di dargli consistenza, di approfondire il legame intimo e sottile che di questo invisibile mistero ci rende parte.
Abstract
L’autrice analizza alcune proposte filosofiche che possono aiutarci a pensare la morte e ad affrontare la nostra comune moralità. Scrutando ad ampio raggio l’orizzonte della storia della filosofia occidentale, individua alcune modalità predominanti e propone la distinzione tra due approcci sostanzialmente differenti: la filosofia della morte e la filosofia del morire. Epicuro e Heidegger occupano, a un primo sguardo, due poli opposti di una filosofia che osa mettere a tema la morte rendendola oggetto di una raffinata elaborazione concettuale e facendo capo a una parola definitiva sull’atteggiamento da assumere di fronte al fine vita: per Epicuro la morte tanto poco mi riguarda che neppure posso definirla “mia”; per Heidegger, invece, essa è la mia possibilità più propria, incondizionata e certa, indeterminata soltanto rispetto al quando, e deve pertanto essere assunta in proprio in ogni istante della vita. In realtà i due poli appartengono a una stessa visione che tende a ricongiungerli entro l’orizzonte pratico in cui l’umana temporalità è restituita alla sua pienezza grazie alla costante imminenza della morte. Tale visione ha il pregio e la capacità di potenziare il tempo vissuto entro il limite ben congegnato dell’umana temporalità, ma presenta l’inconveniente d’introdurre una frattura, che sarà poi difficile da sanare, tra realtà e possibilità della morte. Il decesso viene scalzato dall’indice delle preoccupazioni umane degne di essere indagate filosoficamente, e quella stessa imminenza della morte che avrebbe dovuto offrire un pungolo alla mia temporalità vissuta perde molto del suo vigore. Il termine fisico e biologico di un ciclo individuale e la funzione limite che la coscienza di morire è chiamata ad assumere nella mia durata sono le due facce di un’unica medaglia che è lecito distinguere ma non separare. In gioco c’è la possibilità di sperimentare la morte nella sua continuità quotidiana, e non solo come fatto unico e culminante dell’esistenza individuale. Nonostante il rifiuto teorico di appropriarsi la morte, Epicuro ha incarnato una simile possibilità con il suo esempio di vita, e occupa pertanto una posizione di confine tra filosofia della morte e filosofia del morire. Quest’ultima non può essere definita in base a un insieme sistematico di scritti o a un apparato concettuale dedicato, e costituisce piuttosto un’intelaiatura carsica della storia della filosofia, laddove non una vera e propria controstoria, affidata ad aneddoti, esempi e testimonianze. L’autrice si sofferma su un’unica, emblematica figura che, nella sua palese ambiguità, documenta l’impegno concreto del pensiero di fronte al morire nella sua continutià: il Socrate di Platone. In particolare il Socrate del Simposio, la cui influenza sotterranea arriva fino a Freud.