Ferite, tagli, traumi – Intervento sul film “La pianista”

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 51, Roma, Di Renzo Editore, 2002

pianistaRaccontava Ferenczi che c’è uno spostamento delle pulsioni dall’alto verso il basso che prende il nome di anfimissi. Verso il basso fluiscono le pulsioni cosiddette parziali e cioè gli erotismi orali, anali, uretrali. Anfimissi significa la fusione di quegli erotismi parziali in direzione del cosiddetto primato genitale. L’anfimissi è, dunque, per sua natura pregenitale. Il primato della genitalità sarebbe la risultante di un’anfimissi, diciamo anche di una coniunctio, di una ripetizione discendente di coniunctiones. Diversamente orientato appare Reich, critico del concetto ferencziano di anfimissi. Per Reich la funzione genitale costituisce uno specifico, diciamo anche un salto, e come tale non può essere spiegata a partire dalla somma delle pulsioni pregenitali. Non soltanto le pulsioni orali, anali, uretrali non si sommano per approdare alla genitalità, ma la disturbano. Ciò significa, nel linguaggio di Reich, che esse agiscono in modo tale da indebolire la potenza orgastica. Presumibilmente influenzato da Reich, Ferenczi avrebbe in seguito accolto la lezione di una specificità della funzione genitale. Nel Diario, ad esempio, sostiene che il vero processo è costituito non dalla somma delle pulsioni pregenitali, ma dalla scissione della genitalità in uretralità e analità. All’anfimissi, che è un movimento di discesa, dall’alto al basso, corrisponde inversamente un antianfimissico, regressivo spostamento dal basso verso l’alto. Per Ferenczi, almeno al tempo della sua elaborazione del concetto di anfimissi, lo spostamento dal basso verso l’alto declina i fenomeni di conversione e materializzazione isterica. È all’oscura luce di questo doppio, inverso movimento, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, che mi sembra possibile rileggere la vicenda della pianista. Significativo mi sembra, soprattutto, il movimento ascensionale, vero asse portante lungo il quale si snoda la vicenda della pianista, movimento da leggere non nel segno ferencziano della materializzazione isterica, ma in quello dell’approdo a una verticalità che, come vedremo, significa anche l’uscita della pianista dallo stallo in cui la chiudono, come in un circolo, le sue orizzontali ripetizioni.

L’anfimissi riguarda una fusione discendente. La perversione ha sempre d’altro canto a che vedere con l’invivibile sofferenza di una separazione. La separazione è angoscia e appunto di questo si tratta nelle perversioni, di erotizzare l’angoscia e di mettere un agito al suo posto. Nella vicenda della pianista si tratta dei due opposti modi del separare e del separarsi. Perché si dia un separarsi, un uscire, in altri termini, un abbracciare l’esterno, occorre che si ponga termine al separare assoluto. Nelle vicissitudini del separare e del separarsi ovviamente entra potente e prepotente l’imago della madre, una madre pensata al modo della Klein e cioè come il luogo interno in cui male e bene si combattono come draghi. Sulla scena della perversione della pianista la separazione dalla madre potente, quella dentro la quale se ne sta inghiottito il padre, è insostenibile e dunque va mantenuta a costo di un separare assolutamente quel male e quel bene che dentro il corpo della madre sono in conflitto. Accogliere l’anfimissi delle due imago materne significherebbe la depressione, la perdita, la solitudine, la sofferenza là fuori. Dal momento che il reale è l’odio, l’anfimissi delle due imago comporterebbe un dover sostenere l’odio. Separare, dunque, significa deviare l’odio e, con esso, il reale. Separare mantiene la pianista dentro quel corpo, il corpo-tutto, di madre al quale, come figlia, è furiosamente attaccata. È appunto nella misura in cui si pone al di qua dell’invivibilità della separazione che la pianista, propriamente, per-verte. È nella misura in cui quell’invivibilità non viene lacerata che la pianista lacera, per-verte il proprio corpo, rendendolo oggetto, luogo di ferite.

Secondo Louise Kaplan “una delle ragioni per cui chi si infligge piccole mutilazioni non sa comunicare a parole la sua ansia, la sua rabbia e il suo desiderio è che ha imparato a non disturbare mai i genitori con pensieri e sentimenti sgradevoli”. Questo motivo appare ben rappresentato nella letteratura psicoanalitica. Gabbard, ad esempio, ritiene che i pazienti masochisti spesso riorganizzino interamente la vita per incontrare i bisogni dei genitori a tal punto che la loro stessa esperienza affettiva interna, essendo stata sacrificata ai genitori, diventa per loro remota, inaccessibile. In ambito kleiniano Betty Joseph ipotizza che alla base del masochismo si collochi la credenza del bambino secondo cui la conquista dell’affetto dei genitori avrebbe un prezzo: la rinuncia alla separatezza dai genitori, la rinuncia all’individualità. L’approccio fisico che la pianista tenta nei confronti della madre può allora essere letto come tentativo di riprendere gli oggetti buoni che a suo tempo la pianista ha travasato, perdendoli, dentro il corpo della madre. Un tentativo, ad esempio, di riprendere la possibilità di sentire, dal momento che la pianista sembra sentire soltanto a condizione di infliggersi ferite. In altri termini si tratta qui di quella testimonianza silenziosa e non intrusiva dell’altro di cui anche Masud Khan ha parlato in ordine a una possibile spiegazione del bisogno di dolore fisico.

C’è però ancora un altro possibile e significativo guadagno che giustifica e fortifica il non separarsi, e dunque il per-vertere della pianista. Tale guadagno è stato declinato, ancora in ambito kleiniano, da Ruth Riesenberg Malcolm in occasione della presentazione di un suo caso clinico a un convegno della British Psychoanalytical Society nel 1970. Nella circostanza l’autrice ebbe a sostenere la tesi, variamente rappresentata nei quartieri psicoanalitici, secondo cui una fantasia sessuale perversa può valere quale difesa contro un crollo psicotico. Lo scopo di una perversione, secondo l’autrice, può essere quello di “incapsulare le parti più gravemente psicotiche della personalità del paziente”. Il guadagno consisterebbe unicamente nell’impedire all’Io di “cadere completamente a pezzi”. La crudeltà, tuttavia, rimane immodificata e non è resa possibile la riparazione. Analogamente, secondo Masud Khan, il terrore da cui il perverso deve guardarsi è duplice: terrore di essere annientato e terrore di una “disillusione catastrofica”. La tesi della Malcolm sembra potersi convenientemente applicare almeno a buona parte della vicenda della pianista. La crudeltà della pianista si porrebbe al servizio del mantenimento di un pericolante assetto egoico, un assetto sempre in procinto di scoppiare e ritornare allo stato di frammenti.

La prospettiva che qui si sta disegnando rinviene le sue ultime propaggini nel controverso concetto freudiano di pulsione di morte, concetto che Neumann, in tema di masochismo, ha ridefinito come desiderio di un Io debole di dissolversi nel Sé. Nella successiva riconsiderazione dell’accenno neumanniano, che dobbiamo alla junghiana Rosemary Gordon, l’identità inconscia con il “solvente più forte”, e cioè la madre uroborica, dà piacere. Il masochismo, così come lo declina Rosemary Gordon, costituirebbe il lato d’ombra di un bisogno archetipico: il bisogno di venerare e adorare. Le ferite che la pianista s’infligge le danno piacere o, comunque, le rendono perversamente sollievo. La lametta gelosamente custodita ed espertamente maneggiata dalla pianista non va intesa, infatti, soltanto come mezzo per offendersi, ma quale strumento atto anche a procurare calma e sollievo. La stessa calma e lo stesso sollievo che ricordano oscuramente e paradossalmente al corpo il suo essere oggetto buono e oscuramente degno d’amore, anzi degno dell’unico amore. Un oggetto, potremmo anche dire, che si rende oscuramente degno d’amore allorché si dà in esso una penetrazione materna.

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Giorgio Antonelli