in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013 – Estratto
Concretezza pragmatica, interdisciplinarietà e pluridimensionalità del pensiero stringono una nuova alleanza in formule che Sen dimostra un grande talento comunicativo, e insieme la capacità di condensare riflessioni profonde e decisamente controcorrente in un formato semplice ed accessibile, parente prossimo dello slogan. Afferma, per esempio che “un buon economista non è mai soltanto un economista”, e che “la buona economia non riguarda soltanto ciò che può essere perseguito, ma anche con quale efficacia, e in che modo, e quando”. Occorrerebbe, insomma, ripensare from the starch, come si dice in inglese, ossia dall’inizio, dalle fondamenta, l’essenza stessa della scienza economica. Tenendo conto che l’umanità non può sopportare su di sé un eccesso di realtà, che le occorre semplificare, ma anche e soprattutto immaginare, per poter coltivare un progetto di crescita e di evoluzione responsabilmente e consapevolmente scelto.
L’umanità, insomma, non si accontenta della semplice happiness, ma, ben più ambiziosamente, lotta in cerca della felicitas. La felicità non è qualche cosa che semplicemente accade (happen, da cui happiness), secondo i dettami del destino o il capriccio della fortuna. Al contrario, è una potenzialità da coltivare, con costanza, attenzione ed amore, da cui possono nascere continuamente nuovi frutti. L’etimo di felicità è infatti il latino arcaico feo, derivato a sua volta da phýo, che significa generare, far crescere. Osserva Sen che nell’attiva fecondità della felicitas latina, da cui deriva il nostro termine italiano, c’è maggiore rispondenza all’ideale aristotelico rispetto a quello epicureo e benthamiano rispetto a ciò che dovrebbe renderci felici: è il fare, più che il piacere, a realizzare il nostro benessere interiore e a renderlo trasmissibile all’esterno, come un seme in grado di propagarsi da sé. L’attivismo aristotelico, volto ad attualizzare le potenzialità più proprie della persona umana, non esclude certo il piacere, ma lo rende piuttosto ostensibile e condivisibile, e quindi estensibile anche agli altri e potenzialmente in grado di agire da moltiplicatore. È un piacere che rientra costitutivamente nell’inesausta ricerca di felicità cui ognuno di noi è votato, e che pur tuttavia non lo esaurisce, perché l’eudaimonia aristotelica, figlia del demone socratico, non può essere dissociata dall’impegno, dallo sforzo progressivo di plasmare e rafforzare i propri talenti in vista di una prassi comune.
La natura generativa della felicità, nella sua essenziale ma non essenzialista dimensione di ricerca, ha scatenato nel pubblico una serie domande relative all’effettiva possibilità di perseguire quello che senza dubbio è l’obiettivo, o perlomeno uno degli obiettivi fondamentali della vita umana, in un paese, come il nostro, in cui ad essere sacrificati dalla politica dei tagli sono soprattutto i semi del futuro, ovvero i giovani e le donne.
La conferenza di una serata certo non può fare miracoli. Ma fa già molto ricordando, come contrafforte alla speranza, l’importanza dell’esercizio critico del pensiero e della lotta che inevitabilmente ne scaturisce e con cui ciascuno di noi è chiamato oggi a difendere i propri sogni e il proprio desiderio di giustizia.