Edith Stein. L’empatia e l’emancipazione delle differenze di genere fino alla Croce

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 14, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012 – Estratto

Il concetto di empatia non era nuovo. Lo avevano già utilizzato Husserl e Lipps, con significati profondamente diversi. L’opera della Stein è rivoluzionaria. Costituisce implicitamente il fondamento dell’attuale pratica psicoterapica. Al di là delle varie denominazioni – alleanza terapeutica, transfert/controtransfert, reverie – l’empatia definisce la capacità della propria percezione interiore, soggettiva, di cogliere l’esperienza emotiva e cognitiva vissuta dall’individuo con cui si entra in contatto. È un sentire (Fühlen); e in particolare un sentire dentro se stessi la verità dell’altro (Ein-fühlen). Non un co-sentire esteriore, specifica la psicologa, come si verificherebbe nell’entusiasmo collettivo per una partita di calcio. Ma un discernimento veritativo interno, sul ‘patire’ di chi ci guarda.

È stato scritto moltissimo sulla geniale integrazione al femminile del pensiero fenomenologico operata dalla Stein. In questo contesto mi preme sottolineare tre aspetti del costrutto empatico: l’unità psico-fisica dell’individuo, l’importanza della dimensione relazionale. E per ultimo la pre-esistenza di un ‘tipo’, alla base delle specifiche identità di ciascuno. Il tipo-uomo, lo chiama la filosofa. Jung lo definirà arche-tipo.

Tutte e tre le ipotesi di lavoro sono espresse con un linguaggio diverso rispetto al quale – da psicologici – siamo abituati. Ma è facile riconoscerne l’affinità con i modelli della più recente e sperimentata teoria clinica.

Un ultimo rilievo: l’uso della fenomenologia quale mezzo privilegiato per l’indagine delle “cose della psiche”. Lo strumento inaugurato dalla Stein è oggi abbondantemente ripreso dagli studiosi di filosofia, di psichiatria e di psicoanalisi per parlare della natura dell’uomo, superando le evanescenze dei primi idiomi.

Innanzitutto, dunque, l’unità psico-fisica. Tutto parte dal corpo e dall’espressione mimica. L’ipseità si esprime in prima battuta attraverso i micro e i macro-movimenti, che al contempo rivelano e celano. La prima fase dell’empatia si radica nella attenzione e nella lettura dei segni esteriori. Solo in quanto l’altro è un Leib, io “vedo” attraverso l’oggetto materiale anche una disposizione nel mondo diversa dalla mia. “Vedo” un corpo vivo, abitato da una interiorità.

Da qui entra in gioco il ruolo della dimensione relazionale o – altrimenti detto – dell’intersoggettività. Cioè il secondo elemento steiniano. L’empatia risveglia e costituisce un tertium, distinto dai due soggetti precedenti. Ogden lo chiama “terzo analitico”. Nell’Einfühlen possono essere intercettate e giungere a sviluppo le dimensioni psichiche destinate a rimanere sonnecchianti. Il terzo consente ad entrambi gli attori un confronto, una comparazione e talvolta un risveglio del non detto. Psicoanaliticamente si potrebbe tradurre: l’empatia è la via regia verso le zone dell’Ombra.

Questo passaggio è reso possibile dall’ultimo postulato ‘empatico’ della Stein: l’esistenza di una struttura comune all’uomo in quanto tale, al di là delle differenze di genere, di razza e delle specifiche identità psicologiche. Edith, come Jung, parla di typos. L’empatia fra gli esseri umani è potenzialmente possibile perché in ciascuno esiste un inconscio collettivo abitato da archetipi. Con vero acume psicologico, la filosofa specifica che solo chi si sperimenta come persona, come totalità che possiede un senso può capire altre persone. Senza un percorso individuativo personale ci rinchiudiamo nella prigione della nostra particolarità; gli altri diventano un enigma oppure, ancora peggio, li modelliamo a nostra immagine e distorciamo così la verità. Errori provocati dai misconoscimenti controtransferali “soggettivi”, si direbbe oggi.

Ecco il primo testamento al femminile lasciato dalla Stein. Quello fenomenologico in favore degli attuali studi sulla psiche, basato sul costrutto dell’empatia. Lasciarsi interrogare e mettere in discussione dalla presenza dell’altro per quello che è, postulando che in lui c’è anche qualcosa di noi e viceversa, è divenuto il raffinato strumento clinico per portare ogni individuo a trasformarsi sempre più autenticamente in se stesso. Senza rinunciare al legame con l’altro.

Abstract

Edith Stein vive 51 anni. La sua vicenda terrena può essere divisa in tre tappe, tutte all’insegna della proclamazione di una forte identità femminile. In queste fasi la Stein ha avuto maschi (e pensieri androcentrici) come validi alleati ma anche come forti e insuperabili antagonisti. La prima fase, fino ai 30 anni, è di impronta filosofica/psicologica. Edith, ebrea di origine e atea per scelta, raggiunge il suo apice e il suo scacco nello stretto rapporto con Edmund Husserl, l’ideatore della fenomenologia. Metodo che la Stein integra e corregge con il varo del costrutto relazionale dell’’Einfühlung’. L’empatia – sotto varie declinazioni – rappresenta il fondamento dell’attuale pratica psicoterapica. La seconda fase arriva fino ai 41 anni e può essere definita come ‘pedagogia del femminile’. Il suo più ricco nutrimento ma allo stesso tempo il suo più arduo ostacolo è rappresentato dal confronto con le figuri apicali della religiosità che ha da poco abbracciato, il cristianesimo. In particolare Edith si confronta in una storica lettera con l’attendismo di papa Pio XI per quanto riguarda la politica antisemita di Hitler. La terza fase è monastica, dura 10 anni e termina con il martirio nel lager di Auschwitz, il 9 agosto 1942. Tutte e tre le tappe agiografiche della santa, compatrona d’Europa, possono essere lette come la testimonianza della necessità di una più profonda integrazione dell’etica femminile nel pensiero, nella vita e nella politica della nostra cultura.

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L'autore
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Antonio Dorella