Edgar H. Schein, Culture d’impresa. Come affrontare con successo le transizioni e i cambiamenti organizzativi, 1999, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000
Hanno un merito la maggior parte dei libri di testo di autori americani. Si capisce quello che vogliono dire. E non è poco. Soprattutto in un ambito, come la psicologia del lavoro, in cui la chiarezza e la verifica dei propri assunti è l’unico viatico possibile per ottenere consenso e credibilità.
Il pragmatismo di questi autori si esprime sotto forma di un minimalismo delle tesi esposte, uno o due concetti fondamentali, e di una generosa, chiara, inequivocabile abbondanza di esempi, preferibilmente tratti dalla vita reale. L’accusa che si può rivolgere ad un tale indirizzo è quella di rischiare di banalizzare il contenuto, di essere superficiali o ingenui di fronte alla complessità dei fenomeni. Ma preferiamo comprendere ciò che accusiamo di prosaicità, piuttosto che ignorare il significato dei testi di cui possiamo solo ammirare la prosopopea. Insomma a nostro giudizio un vero libro di testo per essere tale deve perlomeno essere comprensibile, deve saper veicolare un contenuto piuttosto che il narcisismo dialettico o i contorcimenti e le autoreferenzialità del pensiero dell’autore.
Schein da questo punto di vista, per la sua linearità, ci è piaciuto.
Ma anche le sue tesi sembrano plausibili.
Per analizzare, comprendere ed eventualmente modificare la psicologia di lavoro di un’azienda, secondo l’autore, occorre rifarsi a tre livelli giustapposti di cultura: gli artefatti, i valori dichiarati e gli assunti taciti condivisi. Con artefatti si intendono le strutture visibili di un’azienda, ciò che si vede e si ascolta quando si cammina all’interno della sua struttura. Ad esempio le porte chiuse o aperte, oppure l’abbigliamento formale o informale dei dipendenti. Al secondo livello si pongono invece i valori dichiarati, cioè le ‘giustificazioni dichiarate’, le strategie, gli obiettivi e le filosofie dell’azienda, magari espressi attraverso documenti, opuscoli o brevi saggi che circolano fra il personale. Al terzo livello, il più profondo, giacciono gli assunti taciti condivisi che generalmente coincidono con le ragioni storiche del successo di quell’azienda. Le caratteristiche degli assunti sono quelle di essere profondi, e perciò non estrapolabili dalla registrazione del comportamento visibile; ampi, cioè comprendenti tutte le aree del quotidiano e stabili. Tendono cioè a perpetuarsi, in quanto sono i garanti del significato di un’attività, e ogni loro pur minima modificazione provoca ansia.
La valutazione degli assunti di base della cultura di un’azienda, proprio per le loro caratteristiche, non può essere effettuata con semplici sondaggi, soprattutto a causa del fatto che una tale tecnica d’indagine si limiterebbe a risposte che riflettono i valori dichiarati, cioè il secondo livello della cultura dell’azienda. Sono preferibili invece metodiche di indagine aziendale che prevedono la formazione di focus group senza questionari, ma con domande dirette e personali alla ricerca delle affermazioni dei valori dichiarati e delle distonie dei sentimenti che sono rilevabili in relazione a quanto affermato. E’ proprio dal confronto fra valori e artefatti e dal rilevamento delle incoerenze fra il proprio teorema organizzativo e le azioni che ne derivano che è possibile arrivare a comprendere la natura degli assunti taciti condivisi.
L’azienda sul lettino del terapeuta!
Un importante parametro da verificare nella analisi e nella eventuale modifica della cultura aziendale è l’età dell’azienda. Le aziende giovani presentano un maggiore attaccamento agli assunti dell’imprenditore o del fondatore, al pari della strenua difesa della propria identità di un’adolescente in cerca di conferme. Per questo motivo risulta arduo qualsiasi tentativo di cambiamento radicale nella cultura nelle giovani imprese.
Le due sole forti motivazioni al cambiamento, capaci di vincere le resistenze della giovane azienda, sono la presenza di uno scandalo o l’arrivo di un inaspettato tracollo economico. In questi due casi l’ansia da sopravvivenza supera la paura da disconferma e da apprendimento, e si può ottenere il cambiamento di cultura.
La via regia per innescare il processo di cambiamento della giovane azienda è l’innesto di ibridi nel top management, cioè la selezione di persone interne all’azienda provenienti però da subculture che fino a quel momento si sono trovati in una situazione marginale rispetto alla cultura dominante. Piuttosto che persone esterne, generalmente maltollerate, è preferibile promuovere in posizioni chiave individui che accettano la forza del nucleo della cultura aziendale, ma che hanno elaborato valori e assunti più idonei ai nuovi compiti che l’organizzazione è chiamata ad assolvere.
Il successo del cambiamento culturale dipende anche dalla personalità del fondatore, dalla sua capacità di rinnovarsi e dalle sue reazioni ad essere decentrato rispetto alle nuove decisioni da prendere. Vi sono leader che presentano reali difficoltà a cedere il potere, anche se si tratta del figlio o della figlia. Anzi peggio se si tratta di un parente. Viene chiamato come “Sindrome del Principe Alberto” la tendenza dell’imprenditore-fondatore a preparare ufficialmente il successore, ma inconsciamente ad impedirgli di essere adeguato all’impresa. Il nome deriva dal figlio della Regina Vittoria, la quale era nota perché non permetteva al figlio di esercitare le arti che egli avrebbe dovuto applicare durante la sua futura reggenza al trono.
Man mano che la famiglia perde la sua influenza e il comitato procede nel dare l’incarico a nuovi CEO, le organizzazioni entrano nell’età di mezzo, con problemi culturali diversi.
Nelle aziende che si trovano nell’età di mezzo infatti il primo stadio del cambiamento culturale consiste nella disconferma e nella creazione di una quota di ansia da sopravvivenza superiore a quella da apprendimento anche attraverso la diminuzione di quest’ultima, come nelle aziende giovani. Ma a questa prima tappa seguono altri due importanti momenti pedagogici. Una ridefinizione cognitiva in cui si insegnano nuovi concetti e nuovi significati per i vecchi. E una terza ed ultima fase in cui la dirigenza e l’azienda tutta è chiamata ad interiorizzare i nuovi concetti e i nuovi significati attraverso la loro incorporazione nel concetto di sé e delle proprie relazioni.
Uno psicologo del profondo rimane sempre sconcertato dalla pretesa con cui uno psicologo del lavoro, come Schein, malgrado il minimalismo delle proprie tesi, giunga alla fine ad una volontà di ridefinizione dell’individuo a partire dalle esigenze imprenditoriali dell’aziendo presso la quale egli lavora. Appare quasi immorale a chi fonda la libertà dell’inconscio come baluardo inamovibile di ogni indagine psicologica, la protervia di chi in nome della ottimizzazione di una gestione dell’azienda pretende “far incorporare nel concetto di sé” gli assunti di base della nuova cultura. Eppure la psicologia del lavoro si muove proprio nell’ambiguo terreno di confine fra promozione individuale e ideologia del profitto. Senza ancora avere elaborato in forma definitiva le soluzione giuste del dilemma fra soggetto lavorativo e esigenze aziendali.