in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 52, Roma, Di Renzo Editore, 2002 – Estratto
Prigioniero della mia ignoranza e del mio ruolo di fumatore da strapazzo (questo termine-calembour ci condurrà presto a Lacan, e mi chiedo, more lacaniano: non è proprio di uno psico-analista che si rispetti il fumare da stra-pazzo?) mi sono acceso e ho scoperto Odile Lesourne, autrice de Il grande fumatore e la sua passione, un’opera che esamina con attenzione sociologica e con rigore psicoanalitico la questione fumo.
Il libro si avvale della prefazione di Jean Laplanche che, evidenziando il silenzio sul problema, suggerisce di cercare in un Freud nevrotico – che aggira il suo tabagismo senza mai attaccarlo come un sintomo – le ragioni del comportamento quasi muto degli analisti riguardo a una patologia psicosomatica sorella dell’onicofagia e dell’etilismo.
L’argomento è stato affrontato fin dal 1922 da alcuni psicoanalisti, ma non troppi – se si considera che tre di essi pubblicano sulla stessa rivista nell’arco di un solo anno – come si può notare nel breve elenco a fondo pagina.
È arcinota tra gli psicoanalisti la passione di Sigmund Freud per i sigari e lo sanno anche i non addetti ai lavori: il maestro di noi tutti appare nelle fotografie più diffuse in compagnia dell’amato sigaro.
Secondo Ernest Jones, suo biografo e discepolo, Freud fin da giovane ne fumava almeno venti al giorno. A 38 anni, nel 1894, il suo medico Fliess riscontrando un disordine del ritmo cardiaco gli prescrive l’astensione dal fumo. Sarà perché Fliess era anche un amico e quindi poco carico di ascendente transferale, sarà perché Freud preferiva il fumo alla depressione, sta di fatto che continuò a fumare fino alla morte. Questa tesi è avvalorata da un suo scritto, sempre citato da Jones:
Subito dopo aver smesso di fumare, ci sono stati alcuni giorni tollerabili… Poi arrivò improvvisamente una grave crisi cardiaca, peggiore di quelle che avevo avuto quando fumavo… Ed insieme un umore angosciato in cui immagini di morte e scene di addio rimpiazzavano le abituali fantasie… I disturbi organici sono diminuiti negli ultimi due giorni, ma l’umore depresso continua… È spiacevole per un dottore che deve preoccuparsi per tutto il giorno di nevrotici non sapere se egli stesso soffre di una depressione giustificata, oppure di ipocondria.
Certamente Freud non avrebbe mai immaginato che trent’anni dopo Italo Svevo ne La coscienza di Zeno, il primo romanzo psicoanalitico italiano, potesse descrivere magistralmente la nevrosi di un fumatore con angosce e malinconie molto simili a quelle da lui patite.
Apprendiamo ancora da Jones che Freud riprende a fumare dopo solo sette settimane. In seguito smetterà di fumare per quattordici lunghi mesi, ma “…poiché la tortura da sopportare era al di là di ogni umana possibilità…” tornerà ai suoi sigari.
A quarantacinque anni Freud fuma ancora 20 sigari al giorno nonostante un aumento di aritmie cardiache e dolori anginosi. Qualche anno dopo, in una lettera a Karl Abraham, confessa che il tabacco ostacola le sue ricerche psicoanalitiche. Ma neanche questo terrore – che lo preoccupava sicuramente più della sua salute – riuscirà a farlo smettere.
Quando nel 1923 subisce il primo di ben 32 interventi chirurgici al palato a causa di un cancro sicuramente provocato dal fumo, nemmeno questa grave patologia lo convincerà a smettere di fumare.
Leggiamo in La droga di Giancarlo Arnao che si fece confezionare per un certo periodo dei sigari a basso contenuto di nicotina, e insoddisfatto li abbandonò presto tornando a quelli abituali, nonostante si aggravassero i suoi problemi cardiocircolatori.
L’alternarsi di brevi periodi di astensione con lunghe stagioni di terapia tabagica è costante. A settantatré anni prova a smettere dopo un ricovero in ospedale, ma dopo appena ventitré giorni tornerà ai suoi amati sigari che lo sosterranno, insieme alla morfina, per il resto della sua vita.
Quando la mandibola dovette essere asportata e sostituita da una protesi, con atroci dolori e difficoltà nel parlare e per nutrirsi, i sigari diventarono una specie di consolazione. Quasi per giustificarsi di aver ripreso, dopo un ennesimo periodo di astinenza (appena un giorno!) in una lettera inviata a Sandor Ferenczi arrivò ad attribuire ai sigari la capacità di lenire il dolore al palato e di produrre un fantastico effetto sull’umore – tutto grazie all’imprevisto e propizio dono da parte di un paziente di ben cinquanta sigari!
Freud era solito fumare un tipo di sigaro chiamato trabucco, di piccole dimensioni, piuttosto dolce, considerato il migliore tra quelli venduti dal monopolio austriaco. Ma i suoi preferiti erano i cubani Don Pedros e i Reina che si procurava durante le vacanze in Baviera. Gli piacevano anche i Liliputanos olandesi. In tarda età, quando viaggiava molto meno, chiedeva sempre ad amici e colleghi di procurargli i suoi sigari preferiti.
Poco prima di morire, in occasione del settantaduesimo compleanno di suo fratello, Alexander Freud, regalò a questi tutta la sua riserva di sigari invitandolo a indulgere nel piacere del fumo di cui lui non avrebbe potuto più godere a lungo.
Nonostante tutto il simbolismo legato all’aspetto orale descritto per primo proprio da Freud, gli viene attribuita la frase che “un sigaro qualche volta è soltanto un sigaro”.
Max Schur nel libro Vivere e morire racconta che Freud inventò per i sigari la parola arbeitsmittel, traducibile in italiano come strumento, mezzo di lavoro giocando sul termine tedesco lebensmittel (generi, mezzi alimentari).
Lo psicoanalista-allievo Raymond de Saussure nel suo libro di memorie Freud as we knew him ipotizza che l’odore del sigaro stabilisse una specie di connessione sensoriale tra il terapeuta e il paziente disteso sul lettino durante la seduta. A ciò si aggiungeva che nell’atmosfera buia del suo studio si stagliava una intensa luce brillante proveniente non dalla finestra ma dalla sua mente lucida… Il contatto era stabilito soltanto dalla voce di Freud e dall’odore dei suoi sigari fumati senza sosta.