in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 5, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto
Nei primi anni ‘80 del millennio da poco decorso, la mia attenzione si era centrata su talune forme di comunicazione che – talvolta – i pazienti proponevano nellambito del temenos analitico, e/o ai margini di questo.
Notavo talora – nella concreta esperienza clinica – che talora il paziente consegnava all’analista dei fogli scritti… si trattava spesso di pensieri/riflessioni/impressioni intercorsi tra una seduta e l’altra; contenuti che l’analizzando riteneva significativi e/o importanti, e dei quali sentiva, comunque, di voler mantenere una traccia.
Osservavo altresì forme di comunicazione scritta consegnate all’analista con modalità marginale rispetto al tempo/spazio della seduta.
L’espressione comunicazione marginale è da me stata specificatamente usata per indicare quanto il paziente diceva o compiva (configurando comunque una comunicazione) al limite dello spazio e del tempo della seduta.
Per esemplificare, riporto una fattispecie più volte allora riscontrata e relativa alla fase del commiato ed al momento del pagamento.
Poteva accadere che il paziente lasciasse o desse all’analista un appunto scritto poco prima del commiato e/o nel tempo del saluto; o che inserisse un biglietto nella busta contenente il denaro dell’onorario; mi è accaduto – in alcuni casi – di trovare annotazioni e parole scritte nell’interno della busta stessa.
Tutte queste – sinteticamente accennate – sono comunicazioni caratterizzate dalla forma scritta in cui andavo imbattendomi e che, nel corso degli anni, ho guardato con attenzione crescente.
Nello svolgersi del percorso analitico, che proprio in quanto “talking cure” prevede la centralità della comunicazione verbale, gli scritti configurano una variazione dell’andatura comunicazionale , una trasgressione della quale è opportuno prendere atto; ponendosi e ponendo domande nell’ottica di una comprensione che – cercandone il significato ed il senso – consenta progressivamente di recuperare e/o conquistare la possibilità della “parola detta”.
Mi ponevo attorno alle suddette trasgressioni una serie di domande, avanzavo provvisorie risposte.
In primis, configurano effettivamente delle trasgressioni?
Perché – ad un certo punto del percorso analitico – il paziente scrive?
È – per il paziente come soggetto nella relazione – dato abituale o comportamento nuovo?
La forma scritta della comunicazione esprime una difficoltà a verbalizzare i medesimi contenuti?
Forse la modalità della scrittura consente un miglior contenimento dell’emozione sottesa ai contenuti stessi?
Garantisce o sembra garantire un miglior controllo della situazione?
Quali elementi fanno sì che a volte il paziente si limiti a “citare” i propri scritti e in altre li “consegni”?
Perché talvolta la consegna avviene in forma marginale?
Consideravo che la parola scritta permane, la parola detta è volatile: scrivere è forse anche voler fermare e conservare?
Lo scritto del paziente attiva nell’analista una serie di interrogativi ed ipotesi, ponendosi, comunque, come richiesta di attenzione.
Ancora riflettendo sulle motivazioni che inducono il paziente alla scrittura, e riferendomi in modo particolare a quei messaggi diretti all’analista e consegnati allo stesso in modo marginale, mi interrogavo sulle eventuali paure soggiacenti.
Motivazioni e paure che, peraltro, analogamente potremmo rintracciare anche in quelle comunicazioni che – nella vita quotidiana – vengono consegnate dallo scrivente al ricevente con modalità tali che quest’ ultimo sia portato a leggerle e a prenderne atto in assenza del primo.
Forma scritta e distanza, dunque.
Avanzavo, a fronte degli interrogativi sopra accennati, talune ipotesi sulle possibili paure soggiacenti.
La paura delle emozioni: è spesso una costante nella strutturazione psicopatologica del paziente, soprattutto per le tipologie caratterizzate da tratti ossessivi.
La consegna di un messaggio scritto sembra garantire lo scrivente da un impatto emotivo diretto con il ricevente; lo scrivente si aspetta, infatti, che il ricevente legga e prenda atto del contenuto in un tempo successivo a quello condiviso.
La comunicazione diretta – verbale – sembra esporre maggiormente alla reazione del ricevente e, in una possibile concatenazione dinamica, anche alla propria.
La paura del rifiuto: ritengo che questa sia sovente rintracciabile nel retroscena che andiamo esaminando. In una vasta gamma di modalità – dalla più pervasiva alla più circoscritta – la paura del rifiuto può configurarsi come timore del no sempre possibile da parte dell’altro. Anche semplicemente come timore del no al tema specifico che costituisce l’argomento della comunicazione e/o alle emozioni connesse.
La paura dell’aggressività: è pur essa frequentemente rintracciabile, trascolorando talvolta nella paura di reazioni violente se non addirittura potenzialmente distruttive.
Molteplici sono le forme e le sfumature di cui detta paura può rivestirsi: a volte assume la forma di un confessato e/o inconfessabile “fastidio per le discussioni” o ?intolleranza per i toni elevati della voce”.
La paura della emotività: come timore generalizzato a vivere situazioni che espongano alla manifestazione delle emotività altrui/propria si riscontra non raramente nel paziente che verbalizza un “fastidio per le lacrime”, e talvolta una “avversione/antipatia” per le manifestazioni emotive tutte, che dai sopradetti pazienti vengono connotate come “pesanti/patetiche/melense/insopportabili”, od anche come elementi di cui “vergognarsi”.
Abstract
L’Autore espone qui sinteticamente osservazioni e riflessioni – maturate nel corso di più di venti anni di lavoro clinico – su talune forme comunicative del paziente, caratterizzate dall’esser situate ai limiti dello spazio/tempo analitico e denominate comunicazioni marginali e/o border acting. Nel corso del tempo, dette comunicazioni si sono via via conformate all’evoluzione dello sviluppo tecnologico e delle I.C.T., assumendone non di rado le forme tipiche. L’Autore ha verificato che la restituzione simbolica e l’elaborazione delle comunicazioni prodotte del paziente consente di accedere ad alcuni suoi significativi meccanismi; la progressiva coscientizzazione degli elementi soggiacenti a dette comunicazioni porta in luce aspetti rilevanti della strutturazione psicopatologica dello stesso e talora ne mette in luce germi creativi.