di Enrico Santori e Renata Biserni, in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013
25 maggio, ore 11:00
Diciassette ragazze in una fila ordinata. Una alla volta entrano in un bagno minuscolo e versano nel water, da un secchio di plastica celeste, un po’ di liquido misto a poltiglia, tirano lo sciacquone e lanciano un grido, un sospiro o una risata fragorosa. È l’atto conclusivo del gioco iniziato ieri. Tornano in classe, ci stringiamo in un cerchio compatto e ci salutiamo con facce allegre e occhi riconoscenti. Nessuno di noi è più quello di due giorni fa. Già ieri arrivando a scuola abbiamo trovato molte più studentesse, e oggi in questa classe sono tutte presenti. L’incontro con i genitori è stato efficace e le ragazze nel pomeriggio si sono chiamate e hanno parlato tra loro del “laboratorio di sdrammatizzazione”, come lo ha definito uno dei genitori.
Dopo il primo giorno di conoscenza ieri siamo entrati nel vivo del lavoro, ci siamo calati dentro il trauma e abbiamo contattato quelle emozioni che, se non nominate, espresse, tradotte in immagini e collocate in una dimensione di senso, rischiano di incistarsi e rimanere per sempre scollate in un cassetto della psiche per ripresentarsi, dissociate, in altre esperienze della vita. L’emozione prevalente, oltre la paura, è la rabbia che cerca un oggetto e non lo trova. La bomba è stata creata e fatta esplodere da un uomo. Ma è un uomo uno che uccide una ragazza di sedici anni che sta andando a scuola? Non è un uomo, è un mostro che non ha un nome, né una faccia, né un corpo. È un’immagine persecutoria nella mente. Per questo il gruppo gli dà corpo, faccia e nome. Costruisce un fantoccio di carta, gli disegna un volto/maschera e gli affibbia una lista di appellativi.
Ognuna può finalmente esplodere tutta la sua rabbia e la sua frustrazione contro il “vero colpevole”. La catarsi non è facile. Qualcuna sembra non farcela e così è aiutata dalle amiche che insultano, inveiscono, strappano, lanciano anche per lei. Anche l’ultima delle ragazze un po’ alla volta si lascia andare, racconta la sua esperienza dell’esplosione, il suo sentire saltare in aria l’amica mentre era al suo fianco, le immagini, i suoni, gli odori. Parla al fantoccio, gli chiede spiegazioni, ne ipotizza la vita, il dolore, la fragilità. Lo umanizza. E poi lo uccide, dopo aver reso uomo il mostro nella sua immaginazione. La catarsi è completa.
Che fare ora del fantoccio? Le ragazze vorrebbero uscire e bruciarlo in cortile, ma non si può certo appiccare il fuoco in una scuola, in questa scuola. Se non è il fuoco allora sarà l’acqua. Il gruppo decide di far sciogliere la carta del fantoccio nell’acqua e versare poi il contenuto nelle fogne. Questo si può fare. Tutta la feccia dalla quale si sono liberate andrà dove deve andare. Da un bidello ci facciamo portare un secchio pieno d’acqua, detersivo per pavimenti e ammoniaca. Mettiamo il secchio al centro del cerchio, portiamo i pezzi del fantoccio e li immergiamo nell’acqua. Mentre verso il detersivo e l’ammoniaca ci sono grida e risate di soddisfazione. Il gruppo decide che prima di versarlo nel bagno va lasciato macerare una notte. Accetto. Chiediamo al bidello dove possiamo custodire il nostro secchio e spieghiamo che è molto importante che sia un posto sicuro e inaccessibile. Ci indica un piccolo ripostiglio chiuso a chiave. Usciamo dalla classe, il bidello in testa, io con il secchio in mano e le braccia tese davanti a me e dietro le ragazze in fila indiana. Tutto in solenne silenzio.
Arriviamo allo sgabuzzino, deponiamo il secchio, il bidello chiude a chiave e ci diamo con lui appuntamento per l’indomani mattina alle undici in punto. Più tardi, mentre sono nel cortile a parlare con Renata, arriva lo stesso bidello che con la faccia seria e un filo di voce mi chiede: “Dottò, ma la classi la pozzu pulizzari normali?”