(Prima Parte), in Sentieri. Itinerari di psicopatologia, psicosomatica, psichiatria, I.1, 2001, Edizioni ETS, Pisa – Estratto
Quando accade, quando si fa l’analisi? Quando l’analisi è sognata
Che il sogno sia come le piante, così dice Jung, un prodotto naturale, una manifestazione fisiologica, utile per la diagnosi, serba implicazioni notevoli sul piano della sua analisi. Il fatto che il sogno sia un Naturprodukt ha inoltre diretta rilevanza per la questione etica.
La categorizzazione bene/male appartiene al sogno? Nel senso di una intenzionalità, ad esempio? Jung lo nega. Al sogno in quanto tale, naturale cioè, non ineriscono intenzioni etiche. In ciò Jung si discosta dal dettato del Talmud cui pure, come s’è visto, aveva fatto riferimento, paradossalmente, contro Freud. Si trova infatti scritto nel Talmud che chiunque trascorra sette giorni senza sognare merita il nome di malvagio. Ciò suona perfettamente comprensibile se si pensa ad esempio che, nella tradizione ebraica, il Signore nasconde il volto, ma parla in sogno.
Perché Jung ritiene opportuno insistere sull’amoralità del sogno? Penso che una possibile risposta al perché dell’insistenza junghiana sull’amoralità del sogno possa riparare dalle parti d’un mantenimento della sua alterità. Il sogno ci offre la possibilità d’una vicinanza all’alterità.
Essere morali, essere abitatori dei nostri luoghi, implica il mantenimento dell’alterità. Ciò significa che analizzare un sogno si costituisce come operazione essenzialmente estatica nei confronti dell’Io. L’analisi del sogno implica per ciò stesso un’estasi dell’Io, un’estasi dall’Io.
Diversa invece appare la posizione dell’Io là dove si tratta di interpretare. Quando interpreta, l’Io non estatizza. L’interpretazione è a suo modo un sintomo, cioè un accadere che rinforza l’Io. Quello che Jung chiede al sognatore è invece di mettere al centro l’immagine. E, diciamo così, di far ruotare l’analisi, di farla circumambulare intorno a quel centro. Su
questo punto Jung è del tutto esplicito. La tecnica delle libere associazioni si allontana dall’immagine del sogno. In opposizione a questo movimento tecnico freudiano Jung parla d’un procedere concentrico. E’ tale procedere concentrico a prendere il nome di amplificazione. Alla sua origine c’è, da parte dell’analista, un assoluto non sapere. Una iniziale, iniziatica, negativa capacità.
Tèchne, questa «concentrica» di Jung, che molto ricorda il modo gestaltico di affrontare il sogno che non c’è, il sogno che non entra nel setting, il sognatore che non sogna, il sognatore mancante. Lo psicoterapeuta gestaltista, James Simkin nella fattispecie, chiede al sognatore che dice di non sognare di parlare col sogno che non c’è. Ancora meglio, gli chiede di mettere su una sedia, vuota, il sogno che non ricorda e di parlargli. Anche in questo caso, come si vede, la sedia vuota rimanda a quel Mittelpunkt, quel centro, nel quale Jung chiedeva al sognatore di mettere l’immagine onirica (ricordata). Si diventa ciò che accade nel mezzo, suona uno dei più misterici pronunciamenti di Jung, l’enigma fondante della sua pratica analitica, l’enigma odoroso di tèchne.
Si diventa ciò che accade nell’intermondo, nel metaxù, nel barzakh, nel bardo, nel setting analitico. Il sogno è appunto della natura di ciò che accade nel mezzo. Si diventa, insomma, ciò che accade nel sogno. Si dà setting a condizione che si accada nel sogno. Si dà setting a condizione che l’analista sogni l’analisi.
La tèchne junghiana favorisce, induce, promuove, provoca, nei confronti del sogno, movimenti centripeti, o almeno potenzialmente tali, mentre rifugge da quelli centrifughi realizzati dalla libera associazione. La tecnica freudiana non sembra insomma rispettare l’alterità del sogno.
Va anche detto che tale alterità si trova perpetuamente nelle nostre vicinanze, dentro le nostre vicinanze. Jung ritiene in effetti che la distinzione sogno/veglia sia alquanto relativa. La notte è soltanto il luogo ideale dell’apparizione del sogno. Ma anche di giorno si sogna. Anzi, a dire il vero, non facciamo altro che sognare. Vero è anche, però, che non ce ne accorgiamo. Perché? In virtù della luce intensa della nostra coscienza diurna. E’ questa luce a interrompere il nostro perpetuo sognare.
Questo modo di concepire l’atto del sognare fa il paio con la concezione dell’eccezionalità, dell’intermittenza, della contronaturalità quali cifre costitutive di quell’enigma, di quel mistero, di quel sacramento dunque, che per Jung è la coscienza.
Va comunque rilevato in questo modo di pensare il sogno anche il passato di studioso dei fenomeni occulti, nonché la conoscenza e la pratica dell’ipnosi, pratica la cui deriva junghiana prende il nome di immaginazione attiva.
Perché i sogni si rendano visibili occorre che s’abbassi il nostro livello mentale, occorre che s’oscuri la nostra presa sul reale, che s’addormenti l’Io, che entri in trance. Occorre, per riprendere quel termine espressivo di un’antica tèchne che precede la nostra di analisti e, anche segretamente, l’annuncia, Gelassenheit. Termine che fa buona mostra di sé nella lingua di Freud e che ritroviamo, ad esempio, sulla linea, non inedita, che da Eckhart, passando per Schelling, approda a Heidegger.
Linea che, almeno nel suo approdo romantico (magistralmente rappresentato da Schelling), non è certo senza relazione con la fondazione della psicologia analitica, in particolar modo della sua tèchne immaginale. E in effetti quando si ha Gelassenheit secondo Schelling? Quando la volontà, essendo volontà che non vuole, lascia essere l’essere. Occorre insomma, sempre con Schelling, che la ragione si estatizzi, occorre, dico io, ipnosi diurna, lateralizzare, slogare l’Io, occorre entrare nell’immaginazione, patire l’entrata dall’immaginazione, far sostare il volto nella notte e lì dimorare insieme al volto d’un altro.