Tra le proposizioni condannate da Étienne Tempier, vescovo di Parigi, nel 1277, la nr. 183 recita che i “sermones theologi fundati sunt in fabulis”. Il fondamento della teologia non è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i racconti. Chi lo sostiene è, per Tempier, da condannare. Sostenerlo, potremmo dire noi, forzando sulla nostra relativa postcristianità, è una eresia, cioè una scelta. Scelta dettata da una, per impiegare un linguaggio che Tempier avrebbe senz’altro compreso, directio voluntatis. Possiamo insomma concederci il lusso di pensare al cristianesimo (così sospendendolo) come alla grande fabula, al grande racconto dell’occidente. Possiamo in altri termini proclamare, a ridosso di questo cristianesimo reso fabula, la nostra volontà di racconto.
Mille anni prima di Tempier, uno dei massimi teologi del Cristianesimo, Origene, aveva stigmatizzato le tesi degli eretici suoi avversari (gnostici) come altrettante “ipotesi” e, cioè, “racconti”. Con le parole che Defoe premette al suo Robinson Crusoe (un racconto, sì, ma fondato su un evento realmente occorso) potremmo far dire a Origene che l’ipotesi gnostica è “story” mentre la tesi cristiana è “history”. Gli gnostici, insomma, non ce l’avrebbero fatta a imporre il loro racconto. Ciò non toglie ovviamente che quello cristiano sia semplicemente il racconto che ha prevalso. La storia è il teatro in cui racconto lotta contro racconto.
C’è tuttavia da dubitare che tra i teologi difesi strenuamente da Tempier dall’accusa di “favolieri” figurasse Origene. Il quale per tempo era stato dichiarato “eretico” dall’ortodossia cristiana. Perché? Perché, diciamo così, il teologo alessandrino aveva elaborato racconti inaccettabili (cioè: inaccettabili appunto in quanto racconti). Aveva ad esempio sostenuto che il diavolo è redimibile. La psicologia analitica per molti versi può essere intesa come procedente da quell’ipotesi, origeniana, ipotesi variamente rivisitata anche sub specie alchemica nelle forme della redimibilità della materia e, dunque, dell’Ombra.
Alla luce di questo continuarsi del racconto origeniano si comprende il conflitto ingaggiato da Jung contro il Cristianesimo, anzi contro e con. Il cristianesimo ha cessato di mitologizzare. La psicologia analitica diventa, vuole diventare il racconto che il cristianesimo non è stato in grado di rinnovare. Non aveva forse proposto Jung a un attonito Freud di sostituire duemila anni di cristianesimo? E cosa può sostituire il racconto cristianesimo se non un racconto più potente? Il racconto, pensava Jung, della psicologia dinamica.
Lacan, diversamente da Jung, non nutriva illusioni a riguardo. Pensava che il racconto cristianesimo avrebbe comunque prevalso. Non c’è psicoanalisi che tenga di fronte alla promessa d’immortalità.
D’altro canto Freud aveva pensato al racconto nelle specie delle sue equazioni patologiche e, per questo, aveva parlato di romanzo familiare del nevrotico. Possiamo presumere che sia contenuta in nuce in quell’ipotesi di Freud tutto quanto sarebbe derivato in termini di terapia familiare. Pensava forse su Freud, in questo suo patologizzare le ragioni del racconto, l’ipoteca cristiana?
Se il racconto è patologia, però, il racconto è anche la cura. La grande scoperta di Chaucer e di Shakespeare, secondo Bloom, sarebbe in fondo questa. Dopo gli scrittori, gli psicologi. E le ragioni del racconto sono per tempo divenute oggetto della considerazione di non pochi autori. I quali hanno altrettanto per tempo riflettuto sull’equazione terapeutica del racconto e del raccontare.
Due anni fa, a cura di Lieblich, McAdams e Josselson, e sulla lunga scia della Healing Fiction di Hillman, escono gli Healing Plots dell’APA, le trame, le fabulae che curano, laddove, in Hillman, si parlava di Healing Fiction, di racconti che curano, di narrativa, ma anche di finzione. La finzione cura, dunque. Fictio hominis, era per Lattanzio la creazione dell’uomo. Quando finge, dobbiamo desumerne, anche l’uomo crea. Nella fictio un non essere diventa essere.
Tra Lattanzio e Hillman non si può non avvertire l’eco di quella decadenza della menzogna di cui ha fatto questione Oscar Wilde, precursore incognito di uno dei grandi pionieri della psicologia dinamica: Otto Rank. Il quale Rank ha contrapposto alla verità nientedimeno che la realtà, mentendo su se stesso, creativamente (usando cioè terapeuticamente la realtà) a partire dal proprio, reinventato, nome “rank”, ovvero “snello”, “slanciato” (lui che era un similgnomo). Via dall’odiato padre e, dunque, dall’odiato nome-del-padre Rosenfeld. Via dal nome-del-padre e giù, vertiginosamente, alla riscoperta della madre, fin dentro le viscere della nascita e del suo ubiquitario trauma, una forma del quale è la castrazione.
Quanta psicologia successiva deriva dal racconto, dall’ipotesi, dalla fictio di Rank? Interessante questa fuga dal nome-del-padre proprio in relazione a quanto ha sostenuto Barthes e cioè che raccontiamo perché c’è un padre, raccontiamo sullo sfondo di un padre, del nome-del-padre. La verità è pesante, sosteneva Rank, insostenibile. Ergo, dico io all’ombra di Rank, la psicoanalisi, che pretende un rapporto privilegiato con la verità, è insostenibile.
Il racconto cura, ma non è meno vero che occorre curare il racconto. I pazienti, in effetti, portano un racconto in analisi (potrebbero fare altrimenti?) che va riraccontato. Un racconto che è fatto della stessa sostanza dei giochi di berniana memoria, quegli stessi in cui i pazienti sono invischiati e, per esservi invischiati, sono costretti a ripetere indefinitamente. Di qui la necessità di curare il racconto che essi portano in analisi e che li condannano al destino di una ripetizione senza consapevolezza.
Nell’accogliere con gioia e gratitudine, all’interno della comunità pensante/narrante del Centro Studi, e di questa terza uscita del Giornale Storico, i contributi di Bruno Callieri, Stefania Tucci, Les White, Riccardo Zerbetto e l’intervista di Giorgio Albertazzi, segnalo tre novità introdotte nel presente numero: gli abstracts degli articoli in inglese, la sezione bibliografica, centrata sull’approccio narratologico, e la rubrica “Schede”, in cui sono raccontati alcuni testi che a quell’approccio fanno riferimento.
Giorgio Antonelli
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