Aldo Carotenuto, Roma, Di Renzo Editore, 1996
Aldo Carotenuto racconta di sé attraverso i suoi studi, le scelte, i suoi libri ma soprattutto attraverso il suo lavoro di analista. Secondo Carotenuto l’esperienza artistica e quella analitica sono accomunate dal fatto che, pur partendo da una riflessione solitaria, si trasformano lentamente in una ricerca dei significati universali. La coscienza dell’artista è soprattutto conoscenza autobiografica, ma attraverso l’elaborazione artistica, la scrittura e il lavoro sulla forma, essa amplifica la sua portata fino a diventare memoria di tutti, meditazione sul dolore e sulla vita. La “nostalgia della memoria” compete all’artista, il quale la traduce ampliandola a una nostalgia che non investe solo il suo “tempo perduto”, ma diventa una recherche del tempo che l’uomo ha perduto, diviene cioè nostalgia dell’origine, del fondamento stesso, della bellezza in quanto forma di verità. Così come l’arte è una continua risposta agli interrogativi che l’artista si pone durante il percorso della sua esistenza, anche la psicoanalisi ha un grande valore autobiografico perché il destino del paziente e quello dell’analista si fondono in una ricerca mirata alla trasformazione reciproca. Il libro, e la scrittura in particolare, è una testimonianza efficace di ciò che si deve intendere realmente per guarigione psicologica.
Estratto
Anche all’analista accade qualcosa di simile: egli “vive” il suo paziente con tutto se stesso, si compromette, il destino del paziente è il suo stesso destino. Che pena mi fanno quegli analisti che, con la scusa del transfert, negano la realtà dolorante del paziente. Essi si danno come se fossero innocenti di fronte a ciò che succede durante l’analisi. C’è un solo modo di attingere ai misteri della realtà – sia la “natura” che la “natura umana” – rispettarla e valorizzarla vivendola alla luce della propria esistenza, e cosi trasformando il mero dato oggettuale in “sostanza” fertile e vitale. Ho sempre dovuto difendere questo punto di vista, e ho capito perche non è facile farlo accettare: in effetti la preparazione di un analista è cosi lunga, complessa e “dispendiosa” (in vari sensi), che chi l’ha portata a termine ha un disperato bisogno, per poter pensare che ne valeva la pena, di convincersi di essersi guadagnato, come premio di un cosi defatigante tirocinio, un misterioso potere, qualcosa che sta tra la pietra filosofale e la lampada di Aladino, un arcano “Know How” per pochi eletti. Solo cosi potrà dire a se stesso che le sue sono state “fatiche di Ercole” e non, putacaso “di Sisifo”, o delle povere Danaidi, costrette nel Tartaro per l’eternità a riempire d’acqua una giara bucata. Ecco perché dico sempre ai miei studenti che è necessario vedere ciò che fa effettivamente un analista e non quello che dice di fare. L’analista, come intellettuale dotato di una capacità critica di “sospettare” e di ogni assunzione dogmatica, ha il dovere di mettersi continuamente in discussione e di trovare una propria via, una personale identità terapeutica. Jung affermava: “L’importante è che io mi ponga dinanzi al paziente come un essere umano di fronte ad un altro essere umano”. Questa regola cosi semplice è tuttavia impraticabile per moltissimi analisti, perche può succedere che le ferite narcisistiche precoci, anziche nutrire l’anima, impediscano una sincera ed empatica relazione con l’altro.