(Tratto da Giorgio Antonelli, Discorso sul sogno, Lithos Editrice, Roma, 2010)
Winnicott scrive di averlo fatto, quel sogno, per sé, per alcuni dei propri pazienti e per Jung stesso. I was dreaming a dream for Jung, scrive. E, certamente, si tratta qui di un motivo che caratterizza l’onirodinamica junghiana. Possiamo sognare il sogno di un altro. Possiamo sognare in luogo di un altro, nel luogo di un altro. Di questo sono fatti i sogni collettivi, profetici, della sostanza dell’altro. Sostanza alla quale il mio discorso ha trovato un nome insostanziale: attraversamento. Non sussiste ragione alcuna di dubitare dell’assunto di Winnicott. Anch’egli è stato attraversato dal sogno di un altro. E ciò accadeva perché in esso si perpetuasse un resto.
Sogna dunque Winnicott una triplice scena, una triade degna della progressione dialettica hegeliana. In questo caso, invece di Fichte, Schelling e Hegel, si tratta di Freud, Jung e Winnicott, con tutte le analogiche suggestioni che se ne possono trarre. Nella prima scena c’è distruzione assoluta, una distruzione che coinvolge anche il sognatore. Nella seconda scena c’è distruzione assoluta, ma stavolta il sognatore sa di essere lui il distruttore. Nella terza scena Winnicott si desta nel sogno e sa di aver sognato le due precedenti scene. In una sorta di equazione à la Fairbairn Winnicott scrive di aver risolto il problema facendo uso della differenza tra lo stato della veglia e quello del sonno. Non c’era dissociazione e i tre Io (Io sono distrutto, Io distruggo, Io so di essere gli altri due Io) sono in contatto l’uno con l’altro.
Quale resto di Jung ha scovato Winnicott nel proprio sogno sognato per lui? In ottica postwinnicottiana diremmo che l’Io distrutto è il padre (Freud), l’Io distruttore è la madre (Jung), l’Io che ricompone padre e madre, distrutto e distruttore, Freud e Jung, è Winnicott, il figlio. Una sorta di trinità gnostica, si potrebbe aggiungere, una trinità che prevede l’elemento femminile (madre Jung) e non si confina ai tre maschili pater, filius e spiritus sanctus (un maschile latino, quest’ultimo, che è sovrapposto, nelle specie dell’overwrite, a un possibile femminile semitico). Che in quella trinità Winnicott, gemello di Jung, voglia figurare come figlio, diciamo anche come Figlio, non stupisce. Quando Fordham disse a Jung che Winnicott assimilava ai propri ricordi d’infanzia quelli del fondatore della psicologia analitica, questi “non si disse in disaccordo”.
L’equazione cristologica di Winnicott, in chiara prosecuzione del sogno del dio della vite fatto da Jung, apparirà chiara più avanti. Adesso si tratta di individuare il resto di Jung scovato da Winnicott a partire dai sogni di entrambi. Non basta dire, infatti, distruzione. Occorrerà dire, come fa Winnicott, che Jung non era in contatto con i suoi primari impulsi distruttivi. La madre depressa di Jung, così argomenta Winnicott, con l’aggiunta di un if this be true, non ha consentito al figlio di rinvenire dentro di sé l’origine delle fantasie e degli atti distruttivi della sua infanzia. Lo stesso Fordham, al quale Winnicott aveva raccontato il sogno, parla di una paura provata da Jung nei confronti della propria distruttività.
Il piccolo Jung, argomenta Winnicott, ripeteva nel gioco costruzione e distruzione, ma mai ha descritto il proprio costruire per gioco come correlato a un aver distrutto in fantasia. E ciò, ripeto, a causa di una madre depressa. Che Jung abbia avuto problemi con la propria distruttività può essere evinto anche a partire dalla moltiplicazione dei mondi psichici che caratterizza la psicologia analitica, casa a due piani, inconscio individuale e collettivo, Ombra, Io, Anima, archetipi. Dietro la costruzione dell’edificio analitico junghiano pulsano paura e distruzione. Ma pulsano soltanto dietro la psicologia analitica? O non sono, paura e distruzione, della stessa sostanza del respiro dell’universo? Non è anche di questo respiro che si tratta nell’equazione profetica dei sogni così come ha cercato di dipanarla Jung con riferimento alla propria produzione onirica e a quella dei propri pazienti? Non è anche quella della psicoanalisi una corsa, segreta, in direzione del deserto? Perché altrimenti dovrebbe questo discorso approdare al sogno winnicottiano della distruzione come al proprio suggello onirico? Non abbiamo dunque finito coi resti.
Nell’individuare questo resto di Jung, ovviamente, Winnicott, il triadico Winnicott del sogno, crede, immaginariamente, non diversamente da un Hegel sub specie psychoanalytica, di aver saldato i conti. E, però, un resto del suo sogno della distruzione transita nella testa di Winnicott. Quando il triadico sognatore si desta, avverte per una mezz’ora un gran mal di testa. A Fordham Winnicott scrive che quel sogno gli chiarì il mistero di un elemento della sua psicologia che forse l’analisi non poteva raggiungere: la sensazione che sarebbe stato benissimo se qualcuno gli avesse tagliato la testa a metà, dalla fronte alla nuca, e vi avesse tirato fuori qualcosa (un tumore, un ascesso, un seno, una suppurazione) che si trova lì dentro e si fa sentire proprio al centro della testa, dietro la radice del naso. Il resto di cui faccio questione a partire dai preliminari di questo discorso prende qui il nome di tumore, di ascesso. Winnicott vuole liberarsene, magari vuole farlo in nome della psicoanalisi, e pensa a un taglio della propria testa. Certamente né Freud né Jung sarebbero mai potuti approdare a tanto.
Ma il resto somatico rilascia ancora altro, rilascia un’equazione cristologica della psicoanalisi, come a suo tempo aveva fatto anche nel caso di Ferenczi, l’incognito fratello maggiore di Winnicott, oltre che di Jung. Non ha parlato Winnicott di noi analisti come di coloro che vogliono essere mangiati? Non ha parlato, ancora, di pazienti che uccidono i loro analisti? Non si tratta di Cristo in tutto questo? Jung aveva sognato di essere il profetico dio della vite, una sorta di Dioniso che distribuisce vita e che, allo stesso tempo, vuole distruggere duemila anni di cristianesimo. Winnicott, sull’onda della sua recensione dell’autobiografia di Jung, scrive una poesia, L’albero, in cui ritorna la vite del sogno di Jung, solo che stavolta è Winnicott a donarla. In uno stile che a tratti ricorda qualcuno dei Canti di Pound, Winnicott parla della donna che ha amato (Maria, cioè la madre), degli affari del padre che doveva sbrigare, delle persone che doveva sostenere (paralitici, ciechi, storpi, vedove, figli prodighi, prostitute, bambini sofferenti) e termina con il grido di Cristo sulla croce “Eloi, Eloi, lama sabachtani/Sono io che muoio/Io che muoio/Io muoio/Io”. Esempio eclatante di cristologia psicoanalitica che trova, ancora una volta, in Ferenczi, oltre che in Jung, un’origine.