Verso l’unità fondamentale

Adattato da: Giorgio Antonelli, Il mare di Ferenczi. La storia, il pensiero, la vita di un maestro della psicoanalisi, Roma, Di Renzo Editore, 1996

Viene pubblicata, nel 1986, con questo titolo (che traduce l’inglese Toward Basic Unity), e il sottotitolo Nevrosi di transfert e psicosi di transfert, una raccolta di scritti di Margaret Little.

littleb2A parte alcune citazioni di Ferenczi, va rilevato quanto si sostiene nell’appendice dell’opera, appendice che riproduce il testo di un interessante dialogo tra l’autrice e Robert Langs. Il centro della conversazione è costituito dalla ricezione in campo psicoanalitico delle problematiche controtransferali. Vanno segnalate a riguardo alcune forti omologie col pensiero di Ferenczi. La sensibilità dei pazienti agli errori del terapeuta e l’idea che questi debba riconoscerli, ad esempio, mi sembrano, tanto per cominciare, alcune delle più significative. Né l’ammissione dell’errore appare alla Little una misura sufficiente. “Il paziente” scrive “ha diritto non soltanto di esprimere la propria rabbia, ma anche di ricevere dall’analista l’espressione del suo rincrescimento per l’errore”. Per la Little, del resto, gli analisti, tutti senza eccezione, sbagliano con i loro pazienti. Concordo pienamente. Si tratta in realtà di come lavorare con i propri errori e non di come evitarli.

Va detto anche che la Little parlava di queste cose all’inizio degli anni cinquanta (il suo articolo sul controtransfert è del 1951) e che la reazione a quanto andava sostenendo non era certo benevola, tutt’altro. Dopo la lettura del suo contributo su “La risposta totale dell’analista ai bisogni del paziente” (motivo, anche questo, fortemente carico di risonanze ferencziane), la Klein disse, in sede di riunione scientifica (e di una riunione alla quale erano presenti anche gli analizzandi della Little), che il lavoro appena letto dimostrava la necessità che l’autrice aveva di un’altra analisi. Si ripete qui un leit motif della storia e della politica psicoanalitica, un motivo che abbiamo visto all’opera nelle relazioni Freud-Ferenczi, Freud-Rank, Jones-Ferenczi, Klein-Winnicott etc. È interessante anche la descrizione del contesto psicoanalitico (inglese) offerto dalla Little. Alla fine degli anni quaranta e agli inizi degli anni cinquanta il controtransfert era ancora considerato cosa deplorevole, una resistenza irrisolta dell’analista, un errore di tecnica, qualcosa di cui gli psicoanalisti, in genere, si vergognavano e che negavano. Ancor prima Reik, in un articolo del 1924, parlava del controtransfert come di una resistenza dell’analista e proponeva come rimedio, allo stesso modo in cui un tempo aveva fatto Freud, l’autoanalisi. Rimedio, va da sé, col quale Ferenczi non sarebbe stato d’accordo. Anche Lacan, nel suo “Intervento sul transfert” pronunciato nel 1951, e che prendeva le mosse da un riesame del caso di Dora, considerava il controtransfert come qualcosa che impediva il lavoro analitico, che ne fermava la dialettica. Eccezioni a tale quadro erano costituite dal saggio di Winnicott del 1947 su L’odio nel controtransfert, il lavoro della Heimann, del 1950, e di Racker, il quale parlava di nevrosi di controtransfert nel 1948 (e che la Little, nella sua rievocazione, curiosamente ignora). Vanno ricordati anche il saggio di Alice e Michael Balint pubblicato nel 1939 e quello di Leo Berman del 1949. Nel 1951, poi, vengono pubblicati i contributi della Little e di Annie Reich.

Quanto allo scritto della Heimann, nei confronti del quale la Little riconosce il proprio debito e che è generalmente considerato (a torto, secondo me) come una sorta di primo “ufficiale” contributo sul controtransfert (dal momento che quanto avevano affermato gli psicoanalisti precedenti è considerato sporadico e manca di sistematicità), la Little ha delle riserve da muovere. “In quel momento” scrive la Little della Heimann: “lei sosteneva che niente se non le interpretazioni verbali di transfert potevano provocare un cambiamento … Io parlavo di persone che non potevano usare i simboli o le metafore, ecc., il pensiero deduttivo o l’inferenza, mentre lei presupponeva il loro uso.” La Little aveva appunto stigmatizzato la sopravvalutazione dell’interpretazione verbale nello scritto che aveva suscitato la reazione sopra menzionata della Klein. Lo stesso modulo si ripropone nel conflitto d’idee con la rappresentante in terra di Melanie Klein, Hanna Segal, la quale, stando a Margaret Little, era in disaccordo con lei su tutto ciò che trascendeva l’interpretazione verbale. Nelle sue critiche alla Heimann e alla Segal è evidente il punto di vista à la Ferenczi osservato dalla Little, così come è evidente nelle critiche rivolte da Langs a un’altra antesignana del discorso psicoanalitico sul controtransfert, Annie Reich, la quale aveva preso posizione contro la Little. “Nel suo articolo sul controtransfert” riassume così la diatriba Langs “quest’ultima [Annie Reich] criticava il fatto che tu comunicassi i tuoi sentimenti.”

È singolare, lo dico per inciso, che, date le diverse posizioni rappresentate dalla Little e dalla Reich, Lacan ne abbia confuso le lingue nel suo primo seminario, nel quale procede a una particolareggiata disamina del contributo della Little attribuendolo alla Reich. Sembra in qualche modo lampeggiare nei cieli della Little un destino à la Ferenczi. Per non parlare poi del contesto del tutto peculiare nel quale il suo contributo è stato comunicato, un episodio davvero istruttivo di storia della psicoanalisi per il quale rimando alla breve disamina di Forrester e alla conversazione di Langs con la stessa Little .

Va detto che sulla comunicazione dei propri sentimenti al paziente, oltre a Winnicott, e diversamente dalla Heimann, era d’accordo anche Alice Balint che aveva preso posizione a riguardo in un articolo del 1936 memore (già nel titolo che suona Handhabung der Übertragung auf Grund der Ferenczischen Versuche) della lezione ferencziana. È comunque secondo me interessante che i primi analisti citati dalla Heimann nel suo intervento sul controtransfert, letto in occasione del 16 congresso internazionale dell’IPA svoltosi a Zurigo nel 1949, siano appunto, nell’ordine, Ferenczi e Alice Balint (Heimann 1950, 81). La Heimann non condivide la loro tesi secondo cui l’analista deve apertamente esprimere ciò che sente al paziente. Considera il controtransfert uno strumento di ricerca a disposizione dell’analista per arrivare all’inconscio del paziente. Il controtransfert corrisponde, insomma, nella sua ottica, a una “creazione del paziente”, a “una parte della personalità del paziente”. La Heimann ritiene che appunto questo abbia voluto significare Freud quando parlava della necessità che l’analista riconoscesse e padroneggiasse il controtransfert. Jung, dal canto suo, ritiene che la tecnica elaborata da Freud sia volta a mantenere il terapeuta al riparo quanto più possibile dagli effetti del controtransfert. Una posizione, quella di Jung, analoga all’altra, assunta da Ferenczi, in particolare al tempo della redazione del suo Diario. Una buona parte dell’equivoco sta probabilmente nell’impiego stesso del termine “controtransfert”. Bisognerebbe rimeditare a lungo sulle ragioni che hanno portato Freud a usare la preposizione-prefisso “gegen” (contro). Quando Carotenuto parla di “transfert dell’analista” mi sembra che si collochi su una linea di continuità con la tradizione ferencziana, oltre che, ovviamente, junghiana.

L’attenzione portata dalla Little alle ragioni del controtransfert e, dunque, a quelle del paziente, ha alimentato situazioni analitiche e costrutti teorici che richiamano Ferenczi molto da vicino. Si pensi, ad esempio a quella paziente cui riusciva difficile lasciare la Little alla fine di ogni seduta. “Provava un dolore lancinante alle natiche e gridava, così come gridava da bambina quando veniva picchiata duramente” scrive la Little nell’importante contributo, pubblicato nel 1960, “L’unità fondamentale (non differenziazione totale primaria)”. La Little provava un odio inconscio per il fatto che la paziente volesse farla sentire in colpa a motivo del mancato prolungamento delle sedute. Analogamente a quanto abbiamo visto per Ferenczi, anche nel caso della Little si trattava di riconoscere l’odio. Quando il riconoscimento ebbe luogo, la Little riuscì a separarsi dalla sua paziente.

Per quanto riguarda i costrutti teorici, mi sembra che quello dell’“unità fondamentale” possa essere legittimamente letto in ottica ferencziana (oltre che, ovviamente, a ridosso delle concezioni elaborate da Winnicott), ad esempio come prosecuzione della nozione di “amore oggettuale passivo”. Del resto la Little è abbastanza esplicita a riguardo, dal momento che non esita a menzionare, indirettamente quanto esplicitamente la nozione balintiana della “basic fault”. In effetti lo stato di unità fondamentale è un delirio “con il suo valore”, un delirio fondato su dati di realtà e al quale eterminati pazienti hanno bisogno di regredire “allo scopo di riparare il difetto fondamentale, o la frattura scomposta psichica” (Ibidem, 123). Ancora una volta Balint si rivela un veicolo fondamentale della trasmissione ferencziana in lingua inglese.

Quanto poi la Little ha da dire riguardo a quelle che Ferenczi chiama le “analisi infantili sugli adulti” è analogamente rivelatorio di una indiretta, almeno, per quanto pronunciata presenza dello psicoanalista ungherese. “Nelle aree in cui opera il delirio”, scrive la Little, “il paziente è, sotto tutti i riguardi, letteralmente un neonato, e il suo Io è un Io corporeo.” “Per lui” continua” in queste aree soltanto le cose concrete, reali e fisiche hanno un significato e possono trasmettere una convinzione” (Ibidem, 124).

Infine, le osservazioni della Little sulla capacità dei pazienti di contattare le parti reali dei loro analisti coincidono con quanto Ferenczi ha scritto soprattutto negli ultimi lavori e, in particolare, nel Diario. I pazienti, secondo la Little, sono in grado di rispondere al controntransfert inconscio (ad esempio paranoide) dei loro analisti e sanno cogliere i loro sentimenti reali anche prima che essi se ne rendano conto. È fondamentale, per la dialettica analitica, che l’analista riconosca i propri sentimenti, dal momento che “l’analizzando è naturalmente sensibile a qualsiasi mancanza di sincerità dell’analista e vi reagirà inevitabilmente con ostilità” (Ibidem, 63). Il rischio è che il paziente colluda con l’insincerità del paziente (un modo “passivo”, subìto, potremmo dire, di pregiudicare la dialettica analitica). Tale collusione avviene, nel miglior stile ferencziano, per introiezione (è questo il termine impiegato dalla Little) dell’insincerità dell’analista da parte del paziente, un “mezzo per negare i propri sentimenti” a scapito dell’analisi (Ibidem).

Ho parlato di un punto di vista à la Ferenczi che sembra sostenere da lontano quanto la Little asserisce nel corso della sua conversazione con Langs (oltre che nei suoi scritti) e che ripropone in sintesi il suo percorso di psicoanalista nel contesto delle divisioni in seno alla psicoanalisi inglese (kleiniani, annafreudiani e indipendenti o “middle group”, gruppo di centro). È la stessa Little a riconoscerlo in qualche modo nella sua risposta a una domanda di Langs. A fronte di un panorama psicoanalitico così titubante (a dir poco) nei riguardi delle problematiche transferali, Langs chiede alla Little se “a quell’epoca non c’era nessun rivoluzionario uscito allo scoperto”. E la Little risponde che “naturalmente il rivoluzionario esplicito era stato Ferenczi, ma molto prima, e aveva scritto a proposito del controtransfert”. Molto prima, certo. Almeno vent’anni prima. Segue a questa significativa ammissione il ricordo di quando Balint “tremendamente coinvolto con Ferenczi” chiese alla Little di aiutarlo a tradurre in inglese l’opera dello psicoanalista ungherese. Certo la richiesta di Balint non può spiegarsi soltanto in base alla sua insufficiente conoscenza dell’inglese. Se Balint chiese alla Little di aiutarlo nella traduzione di Ferenczi, i motivi devono risiedere in una consonanza con lo psicoanalista ungherese. Si aggiunga a ciò che la Little non conosceva il tedesco e si ricaverà un quadro della situazione che trascende il progetto di una semplice traduzione. L’accordo era che Balint avrebbe dato alla Little i lavori in tedesco di Ferenczi con una bozza di traduzione inglese e un dizionario tedesco. La Little ricorda di aver tradotto “il tedesco/inglese o ungherese/inglese di Balint in inglese/inglese”. Tale traduzione è relativa in particolare al terzo volume delle opere di Ferenczi. Diversamente che nelle edizioni tedesca francese e italiana (articolate in quattro volumi) l’edizione inglese si compone di tre volumi. Il terzo volume, cui fa riferimento la Little, reca il titolo di Final Contributions to the Problems and Methods of Psycho-Analysis ed è stato pubblicato per conto della Hogarth Press nel 1955. Si tratta, dunque, degli ultimi, controversi lavori di Ferenczi. “Quel lavoro” commenta la Little, e c’è da crederle, “era molto importante per me”.

Condividi:
L'autore
Avatar photo
Giorgio Antonelli