Il due non fa coppia senza un tre. Di uno non parliamo proprio (perché non se ne può parlare). Si sa che il rapporto sessuale non c’è. Follia è volere che l’altro sia l’uno. Ci proviamo da sempre e sempre disastrosamente. Qui non c’è màtema che tenga. Nessuno (nessun mortale, beninteso) può trasmettere un sapere che non c’è. Dell’Uno Madre lasciamo stare per adesso. Di questo coccodrillo perfetto s’è detto persino troppo. Del quattro, invece, a ridosso del tre, dobbiamo fare discorso. Il quattro, anzi, turlupinando il tre, fa discorso di noi, ci discorre. Per legare, provvisoriamente beninteso, i due, che sono sempre un uno più uno, ci vuole un terzo, un terzo stato, una terza idea, un fantasma (cioè qualcosa che appare, una scena), l’idea della coppia. Idea, poi, vale “immagine” ed è qui che per Lacan iniziano i guai. Se poi a quel terzo diamo, immeritatamente, il nome di Dio, allora diventiamo analisti cabalisti. Senonché, però, per i cabalisti il processo è à rebours. Non è la terza idea che regge i due, che nel frattempo perseverano nell’uno più uno, ma sono i due che, trascendendo l’uno più uno, il confine dell’uno più uno, reggono Dio. Se il godimento dell’uomo è strutturalmente altro dal godimento della donna (da Tiresia in poi chi può negarlo?) è quest’ultimo, soltanto, a sostenere il volto di Dio. Illuminazione degna del più cabalico dei cabalisti e che dobbiamo, encore, a Lacan. Per il resto, sempre con Lacan, dovremo dire che il dialogo è un imbroglio. Dovunque vedo i segni della mia vecchiaia, diceva Seneca. Dovunque vedo i segni della dissimmetria. Dovunque vedo castrazione, diceva Rank. Dell’uomo, reclinato sul proprio godimento (a riscoprire encore che esso è ripetizione senza senso), si dirà invece, con Miller, che è stupido e solitario. Bontà sua (della donna), atto supremo di compassione, presque sefirotico, se vorrà lasciargli (all’uomo) un resto fallico, mostrarglisi cioè in tutto lo splendore del mancare. Là dove era il mancare, deve avvenire il fallo. Oltre Dio, cioè oltre la sua immagine, c’è En Sof, il senza confini. Ritenga pure qualcuno di arrivarci sottilmente e causalmente: ogni volta che trapassiamo i giardini di qui è soltanto per pervenire a un deserto. Meglio allora, per noi terrestri, che il quarto, sia benedetto!, ci si mostri sotto le reali fattezze di un sintomo. Cosa importa se dietro il sintomo, che alla fine dobbiamo essere se vogliamo pervenire alla santità, pulsi senza mai recedere la morte? Non fa lo stesso il deserto dietro il giardino? E, così facendo, non viene forse annodato il resto?