Sacha Nacht sul silenzio in analisi

Estratto da I silenzi e la psicoanalisi. Rassegna bibliografica, a cura del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, coordinata da Giorgio Antonelli, in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 43, Napoli, Liguori, 1998

S. Nacht, «Silence as an integrative factor», in International Journal of Psychoanalysis, 45/2, 1964.

Si tratta del contributo letto in occasione del 23° Congresso Internazionale di Psicoanalisi svoltosi a Stoccolma nel luglio-agosto del 1963. Se nel 1957, in occasione del Congresso svoltosi a Parigi, Nacht aveva sostenuto che la terapia analitica non dipendeva soltanto dalle interpretazioni e, quattro anni dopo, a Edimburgo, aveva posto l’accento sull’incidenza che l’atteggiamento profondo, interiore dell’analista ha sul progresso della terapia, a Stoccolma il silenzio viene considerato quale fattore il cui ruolo, ai fini del successo del trattamento, non è trascurabile e il cui potere d’integrazione è collegato alla effettività della parola. La comunicazione non verbale (la comunicazione da inconscio a inconscio) rinviene il suo luogo ontogenetico nella fase preoggettuale dell’individuo, fase nella quale l’oggetto non è percepito come separato da sé e il soggetto si sente anzi fuso con esso. E’ per attrazione a questa modalità che può instaurarsi una relazione non verbale in seno alla situazione analitica. Se alcuni individui si sono per così dire meglio emancipati da tale attrazione, altri ne sentono la forza nelle specie di una inconscia nostalgia per lo stadio preoggettuale. Tanto più forte è tale nostalgia in quanto inconscia e, però, in quanto inconscia essa non si lascia verbalizzare. Il bisogno di ritorno allo stadio preoggettuale costituisce, secondo Nacht, il fondamento della relazione non verbale analitica. Di fatto il linguaggio, senza il quale non potrebbe darsi vero transfert, alimenta la lontananza dell’oggetto. Ogni parola costituisce di per sé la prova inoppugnabile che l’oggetto è separato. Solo il silenzio è in grado di accogliere il bisogno di fusione, lo stesso cui, per inciso (e l’inciso è sempre di Nacht), dobbiamo la nascita dei grandi mistici. L’oggetto col quale si dà fusione in analisi è ovviamente l’analista. E’ lui l’oggetto buono la qualità della cui presenza (non parlata, intangibile) consente al paziente di sperimentare «una integrazione dell’oggetto così soddisfacente da indurlo ad abbandonare definitivamente il fenomeno regressivo transferale costituito da una incorporazione arcaica, orale e aggressiva, dell’analista». Perché sia oggetto buono, l’analista deve assicurare presenza, mantenere la qualità del silenzio, non avere paura del silenzio. Un analista che non tollera il silenzio diventa una minaccia per l’inconscio del paziente. «Se l’analista è temuto» osserva Nacht «il silenzio diventa resistenza». Se però è necessario che il paziente sperimenti la fusione, ciò è anche letto come momento temporaneo in vista d’una parola più efficace e resa tale appunto dall’immersione silenziosa. Si tratta qui di oscillare tra silenzio e parola, tra fusione e consapevolezza della separazione. E’ in ordine a tali costituenti (dialogo degli inconsci, presenza del buon oggetto-psicoanalista, oscillazione) che mi sembra di poter leggere il bel contributo di Nacht in continuità con l’onda lunga di Ferenczi.

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Giorgio Antonelli