Tratto da Giorgio Antonelli, Cosa è uno psicoterapeuta, in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 2, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006
Se, come potremmo sostenere sulla scia di Kohut, abbiamo a che vedere con l’uomo tragico, l’uomo del Sé, non semplicemente con l’uomo nevrotico, semplicemente edipico, semplicemente pulsionale, allora di sacrifici e di dèi deve necessariamente trattarsi. In cosa consisteva il sacrificio di Rank? Nel fatto che, scrive Anaïs Nin, non gli era concesso di essere umano, né di amare le sue creazioni (cioè i suoi pazienti). In questo modo, mentre Anaïs Nin registrava sul proprio diario uno dei momenti più significativi della storia della psicologia del profondo, Rank scriveva la tragica autobiografia un analista.
A Kohut non sfuggiva certo la questione sacrificale, quella necessità che lo psicoterapeuta sia morto perché si faccia il sacro. Non si esprimeva ovviamente in questi termini. Ma in questi termini non credo possano o potranno mai esprimersi i prosecutori, a diverso titolo, della lezione di Freud. Kohut ha conosciuto certamente il costrutto dell’attraversamento e lo ha applicato, intanto, al narcisismo. Il narcisismo di Kohut è appunto un narcisismo attraversato. Perché tale attraversamento potesse aver luogo Kohut ha dovuto accoglierlo, cioè farsene ricettacolo, luogo, cosa. Accogliere la grandiosità dell’altro è molto più sacrificale che accoglierne la rabbia. La grandiosità dell’altro mette in discussione la mia. Ora, come è possibile empatizzare con la grandiosità dell’altro se non ci si fa vuoti? E non è forse perché ci si fa vuoti che il narcisismo della prima psicoanalisi diventa il narcisismo attraversato di Kohut?
Non sfuggiva a Kohut, nonostante i diversi linguaggi impiegati, la questione dell’esser morto come necessaria passe in psicoterapia. Lo dice splendidamente in un passo nel quale fa questione della lezione che più di altre ritiene di aver appreso nella sua vita di analista. Kohut scrive di aver appreso, molto semplicemente (ma è una semplicità tutta apparente), che quanto detto dai pazienti è probabilmente vero. Ferenczi l’aveva di molto preceduto in questo riconoscimento. E l’aveva fatto mettendo in discussione l’establishment psicoanalitico. Kohut, che pure riconosceva la grandezza dell’ungherese, ne disdegnava la pratica psicoterapeutica degli ultimi, dal mio punto di vista, più fecondi anni, i più fecondi ma anche i più postpsicoanalitici. Che lezione grande è però questa di ritenere che quanto i pazienti dicono è probabilmente vero? Anche qui si tratta di attraversamento e di terzo stato. Scrive Kohut che quando aveva creduto, lui, di avere ragione e i suoi pazienti torto, è venuto fuori, ma solo dopo una lunga ricerca, che la sua verità era superficiale, mentre la verità dei pazienti era profonda.
Giudicava semplicistico, Kohut, il costrutto ferencziano che contemplava la possibilità di una compensazione retroattiva delle carenze precoci e non era d’accordo con le ultime, estreme, sperimentazioni condotte da Ferenczi, quelle stesse, invece che, dal mio punto di vista, impongono lo psicoanalista ungherese come un maestro assoluto della tèchne psicoterapeutica. Del resto, a partire da Freud, nessuno psicoanalista fu d’accordo con Ferenczi o potrebbe esserlo, se non in parte, oggi. E, però, in questo ravvisare, in ciò che dicono i pazienti, una verità profonda, Kohut si mostra vicinissimo a Ferenczi e vicinissimo anche all’ultimo Ferenczi.
Analogamente, sempre nel segno di questo essere morto dello psicoterapeuta, essere morto al sapere, ed essere morto al sapere trasmesso da Freud, Kohut sospende nella pratica analitica la presa in considerazione dei lapsus. Li fanno i pazienti e li fanno gli psicoterapeuti, ovviamente. Nessuno può negare il significato della scoperta di Freud nel campo della psicopatologia della vita quotidiana. Nessuno, precisa però Kohut, che abbia un certo senso storico. Come dire che quel “certo senso storico” lo si può sospendere. Si può anche far morire la storia. A ogni seduta Bion faceva morire la storia delle sedute precedenti. Ne consegue che è molto più analitico, molto più saggio (e di una saggezza che è della stessa sostanza di sophìa o, almeno, della phrónesis) prestare poca attenzione al lapsus, a questa, come la chiama Kohut, manifestazione minore dell’inconscio.
Prestare molta attenzione al lapsus, indagarlo fino alle sue estreme, profonde conseguenze, interrompe sempre qualcosa, interrompe, chiamiamolo col suo nome possibile, un processo. Un processo d’integrazione. Prestando attenzione al lapsus, lo psicoterapeuta non riconosce il farsi di quel processo, umilia il paziente, replica la sua esperienza di frammentazione. Per altri versi, collocando entro un quadro più generale questa mossa ritentiva, di astensione (come se entrasse in gioco un socratico demone che opponesse sempre un no al desiderio di interpretare), andrà detto che Kohut privilegiava concentrarsi sulle tendenze sane del paziente, non su quelle regressive. Per questo motivo Kohut riteneva necessario riconoscere i progressi del paziente e di farlo con entusiasmo, non con neutralità. Anche nel far ciò Kohut accoglieva la lezione di Ferenczi (lezione, chiamiamola così, d’indulgenza narcisistica) e, senza riconoscerlo, quella di Rank, la stessa che sarebbe stata fatta propria da Carotenuto.
Vedi anche Heinz Kohut: Questioni di tecnica