Adattato da: Giorgio Antonelli, Il mare di Ferenczi. La storia, il pensiero, la vita di un maestro della psicoanalisi, Roma, Di Renzo Editore, 1996
Al di là di notazioni episodiche offerte da Winnicott, disponiamo di interessanti resoconti che della sua tecnica hanno fornito due psicoanalisti che sono stati in analisi con lui: Guntrip, nel suo articolo del 1975, dove la tecnica di Winnicott viene posta a confronto con quella di Fairbairn, e Margaret Little nel suo scritto del 1990 Il vero Sé in azione. Un’analisi con Winnicott (traduzione sconsiderata se si pensa al titolo originale dell’opera che suona: Psychotic Anxieties and Containment. A Personal Record of an Analysis with Winnicott), testo nel quale vengono brevemente riferite anche le precedenti analisi che la Little, prima di rivolgersi a Winnicott, aveva fatto con un analista junghiano, significativamente obliterato come “dottor X”, e con l’ortodossa Ella Freeman Sharpe.
Dal lavoro della Little, che qui prendo brevemente in esame, emergono significative, numerose, consonanze ferencziane di Winnicott. Prendiamo ad esempio la questione dell’ora analitica. Margaret Little riferisce di come Winnicott abbia prolungato la durata della seduta fino a un’ora e mezzo (e ciò fino quasi al termine dell’analisi), senza “allungare” l’onorario. Il fatto era che nella prima mezz’ora la Little non riusciva a parlare finché non trovava “una condizione di stabilità”. “Era come se” scrive “dovessi accogliere dentro di me il silenzio e la tranquillità che lui mi forniva”. È in seguito al verificarsi ripetuto di questa circostanza che Winnicott allunga l’ora analitica, pressoché raddoppiandola. Pratica certamente fuori del registro ortodosso. Pratica sulla quale, comunque, Winnicott ha abbondantemente teorizzato. Nel citato intervento del 1954 egli distingue tra situazione analitica e transfert. Nella situazione analitica l’interpretazione non vale come nel transfert. Valgono i bisogni e non i desideri. Contano l’ambiente e la “physis” dell’analista, la costanza, direi, della sua fisicità. L’analista, scrive Winnicott, “è vivo, respira”, svolge il compito che è assegnato alle madri: sopravvivere. Il passaggio dall’una situazione all’altra è reso possibile a condizione che vengano soddisfatti i bisogni del paziente, bisogni di quiete, di stabilità, di regolarità, appunto ciò che è in gioco nel resoconto della Little. I desideri possono essere affrontati solo posteriormente a questa sorta di “prima risoluzione”. Il fatto è che, per Winnicott, “se un paziente regredito ha bisogno di quiete, senza di questa non si può fare assolutamente nulla.” Succede, in altri termini, che, se tale bisogno non è soddisfatto, si riproduce quella situazione di “carenza ambientale che ha arrestato i processi di crescita del Sé”.
Ferenczi, dal canto suo, giunge a estendere la durata della seduta analitica anche a quattro, talvolta cinque ore giornaliere (è ad esempio il caso di Elizabeth Severn) e, secondo quanto hanno riferito Anna Freud e Richard Sterba, a ritenere che un analista debba avere soltanto un paziente. Analogamente una paziente di Ferenczi, la paziente denominata con la lettera “B” nel Diario, esigeva da lui l’estensione dell’analisi a ventiquattro ore al giorno. Sia Ferenczi sia Winnicott, in modi più (Ferenczi) o meno (Winnicott) estremi, mettono in crisi la legittimità di una presunta invariante del setting analitico: l’ora di cinquanta minuti. Dal momento che ambedue mettono in crisi, in modi diversi, anche il luogo dell’analisi (entrambi possono andare a casa dei pazienti), ci si può legittimamente chiedere cosa rimanga delle invarianti se non quella delle due, nude, persone in relazione, invariante che Lacan considererebbe appartenere, di per sé, al registro immaginario e, di conseguenza, costitutivamente votata allo scacco.
Altri notevoli punti di condivisione tra Ferenczi e Winnicott sono costituiti dalla cosiddetta tecnica attiva e, soprattutto, dallo holding (contenimento). La tecnica attiva, inaugurata da Freud, praticata e poi relativamente accantonata da Ferenczi in favore della neocatarsi, o tecnica dell’indulgenza, consiste in breve, come abbiamo visto, nella prescrizione di comportamenti egodistonici e nella proibizione di comportamenti egosintonici. “Nel promuovere ciò che è inibito e inibire ciò che inibito non è “scrive Ferenczi “noi speriamo solo in una redistribuzione delle energie psichiche del paziente, in primo luogo di quelle libidiche, che ci aiuti a portare alla luce il materiale rimosso” (1921c, 112). Una tecnica, insomma, basata “sul principio di mortificare la libido per portarne tutt’intera la carica nell’analisi”. A un paziente claustrofobico, ad esempio, si può ingiungere/prescrivere di sostare in luoghi chiusi (si chiede al paziente di fare ciò che il paziente ha paura di fare), a un paziente che ricava piacere da questo o quel comportamento (dal momento che il piacere, nella circostanza, equivale per Ferenczi a una resistenza, cioè a un’interruzione del lavoro analitico) si può ingiungere/prescrivere di non indulgere nel comportamento che reca piacere (si chiede al paziente di non fare ciò che al paziente piace fare). La Little scrive che Winnicott “in mancanza di un intervento fisico poteva ‘proibire’ un’azione” (Little 1990, 45). Non si comprende bene, nello specifico, a cosa si riferisse, ma è chiaro che qui si tratta di un equivalente della tecnica attiva di Ferenczi, tecnica dal doppio volto: ingiunzione/prescrizione e proibizione.
Più significativa è la consonanza sul contenimento. Qui c’è una serie di atti, soprattutto inerenti al toccare, al contatto fisico, al tenere con la mano, allo stringere la mano, al contenere, al reggere con la fisicità, che Ferenczi e Winnicott condividono. S’è detto sopra della soddisfazione dei bisogni del paziente e del relativo allungamento dell’ora analitica a un’ora e mezza. Durante tale periodo Winnicott, a detta di Margaret Little, teneva le mani della sua paziente strette tra le proprie, “quasi come” scrive la Little “un cordone ombelicale, mentre stavo distesa, spesso nascosta sotto la coperta, in silenzio, inerte, ritirata, presa dal panico e dalla rabbia, o in lacrime, addormentata e talvolta sognando”. Nelle sedute fatte a casa della Little, poi, questa stava sdraiata, piangendo, mentre Winnicott la “teneva”. La Little parla di un holding, di un contenimento metaforico e di un contenimento letterale, come nel caso delle mani che tengono strette le mani. Ci troviamo qui di fronte a un equivalente, ovvero a un derivato della tecnica ferencziana dell’indulgenza o neocatarsi.
Una situazione del tutto simile viene riferita da Ferenczi nelle sue annotazioni del 1930-32. Egli vi parla di quei pazienti che si assicurano la benevolenza del loro analista afferrandone la mano “e tenendola stretta per tutto il tempo dell’immersione”. Per immersione, in presenza di un’altra persona, Ferenczi intende lo stato di trance non indotto dall’analista, ma prodottosi nel corso della seduta. Ferenczi ne parla anche come di uno sprofondamento, reso fondamentalmente possibile da due fattori: distacco dalla realtà ed enorme fiducia nella persona dell’analista. Il distacco dalla realtà che lo sprofondamento esige va molto più in là del distacco richiesto dalla libera associazione, la quale, secondo Ferenczi, arriva a spingere il paziente, al massimo, al livello del preconscio.
In occasione dei prolungati silenzi cui andavano incontro sia Ferenczi che Winnicott, un inconveniente era quello di rilassarsi profondamente fino ad addormentarsi. Le reazioni dei pazienti all’addormentamento del loro analista sono diverse e ciò anche in funzione della qualità del sonno e della circostanza specifica in cui si produce, del passato reale e analitico che quell’evento implica. La constatazione che Ferenczi si era addormentato sembrò a un suo paziente la prova della fiducia che egli riponeva in lui. Ferenczi riteneva che fosse importante per il paziente percepire nell’analista una capacità di rilassamento. Diversa fu la reazione riferita da Margaret Little in occasione di un episodio di sonnolenza da parte di Winnicott. Una reazione di rabbia “come mi ero spesso arrabbiata interiormente contro mia madre” scrive la Little. E dietro l’addormentamento la sensazione di un caos che incombeva e il pulsare muto dell’equazione “dormire=morire” (Little 1990, 88).
Prevedibilmente la tematica della regressione è considerata centrale anche nel resoconto della propria analisi con Winnicott fornito dalla Little. La Little rimprovera alla Sharpe di non aver toccato i suoi veri problemi. La Sharpe aveva interpretato invece di empatizzare, aveva confuso le lingue della nevrosi (di transfert) e della regressione, dell’analisi e del trattamento/contenimento, il livello linguistico (edipico) e prelinguistico. Più o meno lo stesso rimprovero era stato rivolto a Ferenczi da Elizabeth Severn. A questo riguardo Ferenczi aveva tra l’altro escogitato una tecnica, la giocoanalisi, che spinge alle estreme conseguenze, cioè all’approdo autoipnotico e regressivo, la pratica delle associazioni libere. Nella giocoanalisi si tratta d’impiegare un linguaggio infantile, semplificato, sussurrato, mormorato nell’orecchio, riconducibile al cosiddetto motherese, per entrare in contatto profondo con il paziente. Una tecnica cui ha fatto ricorso, tra gli altri, anche Meltzer.
Mi sembra significativo che di giocoanalisi Ferenczi parli appunto ne Le analisi infantili sugli adulti, lo scritto citato da Winnicott. Ed è altrettanto significativo che, per stigmatizzare l’errore della Sharpe, la Little faccia esplicito riferimento al contributo ferencziano del 1932 sulla confusione delle lingue. La confusione delle lingue, originariamente le lingue della passione e della tenerezza, dell’adulto e del bambino, viene qui intesa in senso controtransferale, dalla parte dell’analista, il quale è, a suo modo, un tecnico degli atti linguistici e, dunque, deputato a operare determinate distinzioni in seno a un setting nel quale quelle lingue vengono parlate e quegli atti compiuti.
Degli errori che originano dalla confusione delle lingue, che è confusione di livelli e di cronologie interiori, la Little fornisce un’ampia rassegna. La confusione delle lingue è alla base, ad esempio, dell’incapacità di riconoscere un determinato bisogno in un momento critico dell’analisi, o l’incomprensione del modo in cui un paziente può risolvere la propria angoscia, si lega in generale a una tecnica “troppo rigida” e pone terapeuta e paziente su due diversi livelli di profondità.
Che la nozione di regressione e anche il modo di trattarla costituisca un punto di raccordo tra Ferenczi e Winnicott lo si può comprendere ad esempio dal brano in cui Ferenczi parla del paziente in stato di trance, brano in cui è notevole il recupero, iniziato con lo scritto redatto insieme a Rank, delle ragioni dell’ipnosi. “Il paziente che non è in sé” scrive Ferenczi “è veramente, finché dura il suo stato di trance, un bambino che non reagisce più alle spiegazioni intelligenti, un bambino che, tutt’al più, può reagire se viene trattato con materna benevolenza; altrimenti ha il senso di essere solo e abbandonato in estrema difficoltà, dunque nella medesima situazione intollerabile che un tempo provocò la scissione psichica e quindi la malattia”. Analogamente, per Margaret Little, Winnicott non corrisponde a una metafora della madre, a un “come se” abbordabile per le consuete vie del linguaggio, ma è la madre. “Per me” scrive la Little “D. W. non rappresentava mia madre. Nel mio delirio di transfert era realmente mia madre e, siccome nella realtà c’è una continuità tra madre e feto, genetica e fisica (attraverso le membrane e la placenta), così per me le sue mani erano il cordone ombelicale, il suo lettino la placenta, e la coperta le membrane, tutto molto al di sotto di qualsiasi livello conscio fino a una fase molto avanzata dell’analisi”.
C’è un altro aspetto che accomuna il setting analitico di Ferenczi e Winnicott: le lacrime. Nel corso di una seduta la Little racconta a Winnicott di una propria amica morta dopo un’assenza a scuola, assenza durante la quale lei non s’era sentita di scriverle. Al commento della Little “Non me ne doveva importare niente, altrimenti avrei scritto” Winnicott si mette a piangere, a piangere le lacrime che la Little non aveva piante a suo tempo. Le lacrime di Winnicott seducono il pianto della Little e le consentono di vivere il lutto negato: “riuscii a piangere per questa perdita” scrive “come non avevo mai fatto prima”. Anche Ferenczi ritiene che l’emozione della lacrima non vada nascosta al paziente. Un pianto condiviso è tale da originare una solidarietà sublimata, il cui unico possibile corrispettivo è costituito dal rapporto madre-bambino. In un altro passo del Diario Ferenczi riconosce che le proprie lacrime, da lui ritenute autentiche, in realtà sono derivate dal suo enorme sforzo inteso a “sviluppare in una forma puramente intellettuale un eccesso di bontà coatta”. All’apparenza si tratta, nel caso di Winnicott e in quello di Ferenczi, di circostanze diverse, non comparabili. Tuttavia i due piangono. E poi manca, per il confronto, un’analisi delle proprie lacrime da parte di Winnicott. Sarebbe stato lo psicoanalista inglese così spietato nei confronti del proprio piangere quanto lo è stato Ferenczi? La “spietatezza (auto)analitica” è qualcosa che possiamo ancora apprendere da Ferenczi.