Adattato da Giorgio Antonelli, “L’immagine di Jung negli epistolari freudiani”, in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 36, Napoli, Liguori, 1994.
Eitingon su Jung
Avvolta nel mistero doveva risultare ai primi psicoanalisti anche la tecnica di Jung. Nella riunione tenuta alla Società Psicoanalitica di Vienna il 30/1/1907 Eitingon, nel chiedersi in cosa consista l’essenziale della terapia, formulava numerose ipotesi in forma di altrettanti interrogativi. Più in particolare Eitingon poneva il problema di come lo psicoterapeuta si debba relazionare al sintomo. In ordine a tale questione sono due le vie che egli prendeva brevemente in considerazione. L’una, quella percorsa da Freud, prevede che il sintomo si tolga via, l’altra, praticata da Jung, non toglie il sintomo “solo via”, ma lo sostituisce. “Secondo la formulazione di Jung” dice Eitingon (il verbale della seduta, come sappiamo, è redatto da Rank o, comunque, sulla falsariga dei suoi appunti) “si sostituisce un complesso con un altro”. Cosa significhi, nella pratica, tale sostituire, né Eitingon né gli altri presenti alla riunione (tra cui, oltre a Freud e ai citati Rank e Eitingon, figurano Adler, Federn e Stekel) ritennero di dover affrontare. E’ comunque interessante verificare che, in una data così lontana dalle controversie, la tecnica junghiana sia comunque contrapposta a quella freudiana.
Pfister su Jung
A parte la questione di come Jung si rapportasse ai sintomi ci si può chiedere in quale modo interpretasse. Un saggio notevole e fortemente critico di come Jung procedesse nelle sue interpretazioni ci è offerto dal pastore Pfister in una lettera, inviata a Freud in data 19/7/1922, nella quale egli dichiara di aver abbandonato del tutto la maniera junghiana. La parola d’ordine non è più “anagogia”, ma “catagogia”. Le interpretazioni di Jung sono anagogiche mentre, come scrive Pfister, “l’essenziale per l’analisi è la catagogia”. Quelle di Jung sono, di conseguenza, non interpretazioni, ma “interpretaziuncole”, “che presentano qualunque scarto come una marmellata spirituale superiore, qualunque perversità come oracolo e mistero sacro e che introducono di contrabbando in ogni anima guasta un piccolo Apollo e un piccolo Cristo”. Come tali esse “non servono a niente”. Si tratta, così il pastore liquida Jung, della traduzione psicologica dell’hegelismo, ovvero della conversione psicologica del principio secondo cui tutto ciò che è deve essere razionale. Tali interpretazioni sono sprovviste in tutto e per tutto di senso etico e sono inabilitate a educare.
Jones su Jung
Un esempio di interpretazione junghiana d’una immagine onirica è ricordato da Jones in una lettera inviata a Freud in data 15/11/1914. Nell’occasione si tratta della “scoperta” secondo cui una automobile, in sogno, simbolizzerebbe entusiasmo. A esprimersi in questi termini è Constance Long, che la storia della psicoanalisi (una storia, come da queste pagine appare evidente, impossibile da scrivere) annovera tra i quindici membri fondatori della Società Psicoanalitica di Londra, società costituitasi il 30/10/1913. Freud aveva già letto uno scritto della Long (si trattava di una “introduzione alla psicoanalisi”) e in una lettera inviata a Jones il 19/3/1914 aveva scritto che il lavoro di lei ancora non mostrava tracce della “infezione svizzera”. L’ipotesi di Freud era che la Long l’avesse scritto prima di sentir parlare del “vangelo di Jung”. Nella sua risposta del 23/3/1914 Jones lo conferma e ripete l’espressione freudiana “vangelo di Jung” con la quale evidentemente si trova in sintonia. Sappiamo che, in seguito alla redazione di quello scritto, la Long fece un’analisi con Jung. Nella lettera a Freud del 15/2/1914 Jones riferisce d’un caso clinico da lei interpretato a una delle riunioni della società. Constance Long, scrive Jones, è tornata dalla sua “analisi” (le virgolette sarcastiche sono sue) di cinque settimane con Jung, un’analisi dalla quale ha tratto molto piacere. Figuriamoci, osserva Jones, se si può ricavare piacere da una analisi! Se l’analisi è una vera analisi, dà ad intendere Jones, ciò non è possibile. Quella di Jung, evidentemente, non è una vera analisi.
Il caso clinico interpretato dalla Long riguarda un uomo di successo con una fissazione a fantasie masochistiche tale da non lasciargli alcun desiderio di avere relazioni con le donne. Si tratta qui d’un argomento molto caro a Jones, il quale avrebbe teorizzato che il vero fondo della paura, tanto per gli uomini quanto per le donne, non è costituito dalla castrazione, ma dalla perdita definitiva e irrimediabile del desiderio sessuale. A tale paura fondamentale egli avrebbe dato, mediandolo dal greco, il nome di “afanisi”. “Se risaliamo alle radici della paura fondamentale che è alla base di tutte le nevrosi”, affermerà in occasione del decimo congresso internazionale di psicoanalisi a Innsbruck il 1/9/27, “siamo spinti, a parer mio, alla conclusione che essa significa in realtà proprio questa afanisi, cioè l’estinzione totale, e naturalmente permanente, della capacità (ivi conclusa l’opportunità) di godimento sessuale.” Come interpreta invece la Long (la “completamente stupida” Long), scimmiottando Jung? L’incapacità sessuale dell’uomo in questione è meramente simbolica, ha il valore d’un significato secondario. L’uomo fingeva di soffrire d’una impotenza sessuale per sottrarsi a quello che si potrebbe definire il suo “compito vitale”: avere una sua propria casa invece di continuare a vivere in quella di famiglia. Qui i piani dell’interpretazione appaiono a Jones “pervertiti”. Il primario diventa secondario e viceversa. Una tale inversione, relativamente alla questione del simbolo, sarebbe stata rimproverata a Jung, come vedremo, anche da Ferenczi.
E veniamo alla questione del transfert. Come lo trattava Jung? A riguardo c’è una indiscrezione che Jones offre all’irrisione di Freud in una lettera del 27/7/1914. Jones racconta di aver parlato con la signora Eder che è da un mese in analisi con Jung. “Forse” scrive Jones “Lei sarà interessato a conoscere l’ultimo metodo in fatto di Übertragung [transfert].” A tale premessa fa seguito una curiosa spiegazione di come Jung affronti il transfert, ovvero di come concepisca il suo superamento da parte della paziente. La paziente supera il transfert, spiega Jones, quando apprende che in realtà non è innamorata dell’analista ma che per la prima volta si sta sforzando di comprendere una “Idea Universale” da intendersi “nel senso di Platone”. E conclude nel modo seguente: “dopo aver fatto ciò, quello che sembra essere Übertragung può anche restare”.
In sintonia con quanto precede si trova il contenuto della lettera inviata da Freud a Jones il 22/10/1927. L’oggetto in questione è Joan Riviere (intorno alla quale ruotano numerose comunicazioni tra i due psicoanalisti). La concezione della Riviere viene definita da Freud “eretica” e assimilata alla concezione di Jung. In ambedue i casi, scrive Freud, l’analisi tende a farsi “irreale e impersonale”. Con riferimento a un articolo della Riviere sulla psicoanalisi infantile, Freud stigmatizza la tendenza tipica degli “apostati” della psicoanalisi ad assolutizzare quella parte di verità che sono riusciti a comprendere. Se un caso clinico, osserva Freud, ha dimostrato alla Riviere “l’importanza dell’imago filogenetica”, molto più numerosi sono i casi che hanno dimostrato allo stesso Freud l’influenza indubbia di “fattori reali, personali”. Nel caso della Riviere (e anche di Jung, così come di Adler) viene di fatto ignorata la “sovradeterminazione e la molteplicità dei fattori eziologici”. Nella sintetica disamina operata da Freud, l’ignorare o il sottovalutare il peso della sovradeterminazione e la conseguente assolutizzazione di questo o quel fattore eziologico conducono l’analista dalle parti dell’irreale e dell’impersonale. Diversamente; come avrebbe anche ribadito Ferenczi, lo “specifico” dell’analisi risiede nella sua “specificità”, nell’ancoraggio ai fatti e ai fattori reali, nella sua pretesa di verità storica. Da questa specificità Jung sembra lontano.
Ferenczi su Jung
Quanto all’atteggiamento analitico di Jung, Ferenczi ha critiche severissime da muovere. Lo fa in una lettera inviata a Freud in data 25/10/1912. Jung confonde l’analisi con la confessione dei peccati. Ora, a detta di Ferenczi, la confessione dei peccati è un compito secondario dell’analisi, quello principale consistendo “nella demolizione dell’imago paterna”. Nessuna confessione può sfociare in un tale esito. Jung confessa, non analizza. E confessa perché “non ha mai voluto (né potuto) lasciarsi demolire da un paziente”. Tale “masochismo analitico”, al contrario, Ferenczi l’avrebbe sperimentato fino alla tragedia. Jung, invece, “non ha mai analizzato”, rimanendo per il paziente “il salvatore che si compiace della propria somiglianza con Dio.”
Per molti versi la critica che Ferenczi muove allo Jung analista è nel migliore stile junghiano. Jung appare a Ferenczi un analista inflazionato. Lo stesso Jung, ne L’Io e l’inconscio, impiegherà l’espressione “somiglianza con Dio” (che è medioplatonica prima di diventare anche goethiana e adleriana) per caratterizzare, d’accordo con Adler, “alcuni tratti fondamentali della psicologia di potenza del nevrotico.” E lo farà in un capitolo dedicato alle “conseguenze dell’assimilazione dell’inconscio”, ovvero alla “inflazione psichica.” Va anche ricordato che nell’ultimo capitolo del libro Jung approda all’analisi della “personalità mana”, ovvero alla figura del “Mago” che, nella sua definizione, è chi attrae a sé mana, cioè Anima. Non appare del tutto illegittima la critica di Ferenczi. E la sua legittimità trae ancora maggior forza dal fatto di essere strettamente coinvolta con un irrisolto della psicologia del profondo: la sua eredità nietzscheana. Va ricordato a tale riguardo il lapsus commesso da Freud in una lettera inviata a Ferenczi in data 6/10/1910. In quell’occasione Freud scrive di non essere il “superuomo psicoanalitico” e di non aver ancora superato il controtransfert. Freud, però, dimentica il “non”, e non è dimenticanza da poco . A fronte di ciò va detto che è Jung lo psicologo che più si confronta con Nietzsche, è lui l’erede di quell’irrisolto della psicoanalisi.
Le critiche allo Jung analista sono fortificate da quelle mosse all’indirizzo dello Jung teorico di psicologia del profondo. Anche in questo caso la critica di Ferenczi è quant’altre mai spietata. Nella lettera inviata a Freud il 21/10/1912, ad esempio, Ferenczi stigmatizza gli errori di Jung contenuti nel suo scritto Trasformazioni e simboli della libido. Lo farà come vedremo anche in altre lettere e poi, in modo sistematico, in un articolo del 1913 apparso sul primo numero dellaInternationale Zeitschrift für Psychoanalyse . Nella lettera del 21/10/1912 Ferenczi giunge addirittura ad esclamare che Jung non conosce l’inconscio! E motiva in questo modo: “Identifica l’inconscio con il principio di piacere (“il pensare non indirizzato”), la coscienza con il principio di realtà (“il pensare indirizzato”)”. Oltre a ciò, secondo Ferenczi, Jung riterrebbe all’opera l’inconscio soltanto nel sogno e nella patologia e non sospetta “che dietro il pensiero cosciente più intelligente e morale dell’essere umano normale in stato di veglia si nasconde un substrato di pulsioni, fantasie senza le quali quel pensiero non sarebbe mai emerso.” Ciò è anche conseguenza del fatto che Jung ignora il preconscio.
Certo c’è poco da aspettarsi da un analista che ignora l’inconscio e che attribuisce al complesso edipico la valenza di “simbolo irreale dell’amore in generale”. E’ qui all’opera un vero è proprio ribaltamento e, a ridosso di esso, una diversa concezione del simbolo da parte di Ferenczi, per il quale la dimensione simbolica consegue a un’attenuazione attivata dalla censura. E’ vero, scrive Ferenczi, che il serpente può diventare simbolo del pene, ma come può essere vero il contrario? Lo stesso vale per l’amore e l’incesto. E’ l’Edipo a venire prima, è l’Edipo il simbolizzato.
Ancora Jones su Jung
Di fronte a tali e tante argomentazioni non veniva ovviamente dato alcun credito a chi, come Eder e la Long, membri fondatori della Società Psicoanalitica di Londra, affermava che il metodo junghiano rappresentava una evoluzione legittima della psicoanalisi e che le differenze tra l’uno e l’altro indirizzo non erano a tal punto radicali da rendere impraticabile una cooperazione. Jones, che negava un tale assunto, era tacciato di dogmatismo (lettera a Freud del 15/11/1914).
Il quale Jones, va sottolineato, già nella prima lettera inviata a Freud il 13/5/1908, coglie l’occasione per “sparlare” di Jung psicoanalista. Con riferimento al paziente eccellente Otto Gross, che è entrato al Burghölzli per una terapia con Jung, Jones comunica a Freud il proprio disagio, un disagio che definisce naturale e che giustifica in base a tre considerazioni: Jung ha difficoltà a celare i propri sentimenti; prova una marcata avversione per Gross; la pensa in modo diverso da lui sul piano morale. “Comunque” commenta Jones “dobbiamo sperare per il meglio”. Jones aveva incontrato Freud circa due settimane prima, il 27/4/1908, in occasione del primo congresso internazionale di psicoanalisi svoltosi a Salisburgo. Aveva in seguito trascorso qualche giorno con Freud a Vienna ed era stato ospite, insieme all’americano Brill, della riunione tenuta all’Associazione psicoanalitica di Vienna il 6/5/1908. Nelle sue memorie lascerà intendere di non averne tratto una impressione positiva e giudicherà “indegna del genio di Freud” quella “compagnia” di psicoanalisti (nella quale figuravano, tra gli altri, Adler, Federn, Rank e Stekel). La lettera del 13/5/1908 è spedita da Monaco. Sempre da Monaco giunge a Freud la seconda lettera, datata 27/6/1908, nella quale Jones riferisce in merito alla fuga di Gross dal Burghölzli. Jones ha avuto modo di vederlo il giorno precedente e lo descrive in pessime condizioni, paranoico, escluso dal mondo, di nuovo in preda alla sua addiction di cocainomane. Sempre da Jones, stavolta dal suo libro di memorie, sappiamo d’una lettera che Gross inviò a Jung dopo la fuga, lettera nella quale gli chiedeva di mandargli il denaro per le spese dell’albergo e il biglietto ferroviario per Monaco. Ancora nelle sue Memorie di uno psicoanalista Jones dimostra di essere bene al corrente di come Jung trattasse il caso Gross. “Jung” scrive Jones “fece del suo meglio per aiutarlo” e aggiunge “Jung aveva la lodevole ambizione di essere il primo ad analizzare un caso didementia praecox, e lavorò moltissimo a quel compito; mi disse che un giorno lavorò senza soste con Gross per dodici ore finché furono ridotti quasi ad automi che annuivano. Gross, tuttavia, fuggì dall’istituto.”
Jung, in altri termini, aveva fallito. Sul perché Jones tenga a precisarlo e ad evidenziarlo nelle sue prime due lettere a Freud si potrebbero costruire svariate congetture. Senza entrare nel merito di esse va sottolineato però il fatto che fu proprio Gross a iniziare Jones alla psicoanalisi. Nelle sue memorie Jones lo chiama il suo “primo istruttore nella tecnica della psicoanalisi” e ne parla come d’una sorta di folle genio romantico (cliché cui contribuisce il suicidio di Gross), dotato di un eccelso potere di penetrare negli altrui pensieri. Jung, insomma, non era stato all’altezza del primo maestro di Jones. Un’altra notazione interessante a tale riguardo prende le mosse dallo scritto Per la storia del movimento psicoanalitico (pubblicato nel 1914) le cui bozze Freud aveva inviato a Jones. Nella lettera del 18/5/1914 Jones propose a Freud alcune correzioni relative a questioni di dettaglio giudicate non importanti. Brill, Ferenczi e Jones, secondo quanto scrive Freud, avrebbero fatto conoscenza della psicoanalisi a Zurigo. “Per quanto mi riguarda” osserva Jones “devo declinare questo onore”. E spiega di aveva incontrato per la prima volta Jung e Otto Gross nel settembre del 1907 ad Amsterdam, in occasione d’un congresso. L’autunno dello stesso anno Jones l’aveva trascorso a Monaco dove, scrive, aveva appreso da Gross più di quanto avesse mai appreso da Jung. Sulla via del ritorno a casa trascorse 5 o 6 giorni a Zurigo con Jung. In quell’occasione era stato invitato al congresso internazionale di Salisburgo e fu a Salisburgo che Jung presentò Jones a Freud. Sta forse qui, ritiene Jones, l’origine dell’errore contenuto nella frase di Freud che intende far rettificare: Freud deve aver pensato che Jones fosse un allievo di Jung. Nella redazione finale del proprio scritto sulla storia del movimento psicoanalitico Freud andò incontro all’obiezione sollevata da Jones e lasciò cadere la frase “incriminata”.
Vale la pena di ricordare, in riferimento a Jung, un altro brano lasciato cadere da Freud su indicazione di Jones. Freud aveva posto l’accento su un tratto caratteriale di Jung, la sua tendenza a sbarazzarsi degli interlocutori scomodi. Jones era perfettamente d’accordo con Freud. “Per principio” scriveva “non sono assolutamente a favore della pietà in una guerra così importante”. Del resto anche lui, in una lettera del 1/1/1913, aveva comunicato a Freud di voler rinunciare a ogni rapporto privato con Jung, il quale non ha esitato a dirsi ostacolato dalle “kind relations to men”. Tuttavia la frase di Freud gli sembrava eccessiva, tale da indebolire l’effetto del saggio piuttosto che rafforzarlo, e non si dovevano lasciare armi nelle mani del “nemico”.
Nella lettera successiva, inviata il 25/5/1914, Jones si interroga su un’altra frase di Freud relativa stavolta alla tecnica di Jung e alla sua assimilazione ai metodi terapeutici di Paul Dubois. Dubois, che insegnava neuropatologia a Berna, trattava le nevrosi col metodo della persuasione e, più specificamente, della esortazione morale. Ferenczi aveva già stigmatizzato la “terapia moralizzatrice” di Dubois in una sua conferenza tenuta nel 1909 alla Società reale di medicina di Budapest, e in occasione del suo intervento al congresso dell’Associazione psicoanalitica internazionale svoltosi a Monaco (1913) aveva affermato che “il metodorazionale e moralizzatore di Dubois si esclude da sé come il più inutilizzabile di tutti” . A ulteriore chiosa dell’assunto di Freud, Jones si chiede se l’avvicinamento di Jung a Dubois (Freud aveva scritto di una deviazione attraverso Vienna che aveva portato gli zurighesi alla vicina Berna) non possa significare l’ulteriore passaggio (“l’ultimo passo” lo chiama Jones) di Jung a un atteggiamento conciliante nei confronti dei suoi pazienti (l’aggettivo impiegato da Jones è “kind”). La degradazione della tecnica di Jung a tecnica suggestiva significa la definitiva uscita di Jung dal solco della psicoanalisi. E’ comunque interessante rilevare la compresenza, negli spunti offertici da Freud e Jones, d’uno Jung spietato nelle relazioni sociali, ma “generoso” nella relazione analitica. Una giustapposizione forse solo apparente, dal momento che vi si possono scorgere le tracce d’una relazione compensatoria che certo varrebbe la pena di indagare più a fondo.
Ancora Ferenczi su Jung
Un aspetto fondante di questa generosità di Jung nei confronti dei propri pazienti potrebbe essere letto tra le righe della già citata lettera inviata da Ferenczi a Freud il 26/12/1912. In essa Ferenczi critica l’insolenza del comportamento di Jung, il quale non solo, come abbiamo visto, aveva rinfacciato a Freud il fatto di non essere stato analizzato e, dunque, di essere rimasto un nevrotico, ma anche il truc, così lo chiama, di trattare i suoi discepoli come altrettanti pazienti. E’ comunque stato Jung, osserva Ferenczi, “a pretendere la comunità analitica dei discepoli e che questi venissero trattati come pazienti.” Ora che è lui a essere in causa, però, il trattamento non appare più di suo gradimento. Ferenczi crede dal canto suo nella comunità analitica, ma non nell’analisi reciproca. Quest’ultima viene giudicata “priva di senso, oltre che impossibile”. Ciascun analista (Jung compreso) “deve essere capace di sopportare che venga esercitata su di lui un’autorità dalla quale accettare le correzioni analitiche'”. Jung, come sappiamo, intendeva la comunità analitica come inclusiva di Freud. Ferenczi dichiara qui di intenderla come non inclusiva di Freud. Ho buoni motivi per ritenere che lo psicoanalista ungherese stia evitando di dire tutta la verità. E’ un fatto che la critica di Jung al Freud non analizzato sarà protagonista del Diario Clinico redatto da Ferenczi nel 1932, un anno primo di morire. Nell’occasione Ferenczi si mostrerà molto più duro di Jung nei confronti di Freud. E’ anche un fatto che Ferenczi lamenterà la penuria di confessioni analitiche da parte di Freud e gli proporrà persino di analizzarlo. Ma non è questo il punto che qui mi interessa. Il punto è che l’espressione “analisi reciproca” può essere intesa in un’accezione che Freud e Ferenczi a quel tempo non potevano contemplare. Freud, come abbiamo visto, sospetta che la signorina Moltzer abbia analizzato Jung e comunica il suo sospetto a Ferenczi e Jones. D’altro canto a noi risulta che sia stato Jung ad analizzare la signorina Moltzer. Ora, da un punto di vista strettamente psicoanalitico, l’un movimento esclude l’altro. Ciò non impedisce però l’affiorare di inquietanti interrogativi: e se Jung si fosse fatto analizzare da una sua analizzata? O se avesse analizzato la sua analista? Se si trattasse qui, insomma, di analisi reciproca?
Ferenczi arriva a praticare l’analisi reciproca soltanto negli ultimi anni della sua vita, quando è ormai pressoché ostracizzato dal movimento psicoanalitico. L’ipotesi indimostrabile, stando ai documenti in nostro possesso, d’uno Jung che pratica l’analisi reciproca mi sembra comunque affascinante anche in considerazione degli estremi sviluppi impressi da Ferenczi alla tecnica psicoanalitica. A ridosso delle esperienze riferite dallo psicoanalista ungherese nel suo Diario Clinico sembrerebbe delinearsi l’ombra lunga e lontana dell’influenza di Jung. Un’ipotesi, anche questa, difficilmente dimostrabile. La nutrita presenza di Jung nell’epistolario avuto da Ferenczi con Freud, comunque, può essere utilmente riconsiderata a possibile sostegno di quanto precede.