Adattato da: Giorgio Antonelli, Il mare di Ferenczi. La storia, il pensiero, la vita di un maestro della psicoanalisi, Roma, Di Renzo Editore, 1996
Nel numero 23 dell’International Journal of Psycho-Analysis compare il lungo articolo di Izette de Forest The Therapeutic of Sándor Ferenczi. L’articolo (che costituirà il cap. 2 del libro che Izette de Forest pubblica nel 1954 col titolo The Leaven of Love) si occupa di stabilire come insorge secondo Ferenczi la nevrosi, di delineare i fondamenti della tecnica terapeutica e di declinarli secondo uno schema organizzato temporalmente in sei stadi. Segue a questa parte, centrale, dell’articolo, una disamina sia delle obiezioni mosse all’indirizzo della tecnica di Ferenczi, sia dei suoi contributi alla tecnica freudiana. Dal momento che Izette de Forest è stata una paziente di Ferenczi (nel periodo 1925-27 e nel 1929), mi sembra interessante riferirne in qualche dettaglio il lavoro anche a costo di qualche ridondanza.
Alla base delle nevrosi si porrebbero tre diverse, possibili circostanze: 1) un’esperienza fortemente traumatica cui seguirebbe di necessità una immediata rimozione; 2) una sequenza di esperienze meno intensamente traumatiche e non tutte necessariamente rimosse; 3) una esposizione costante a un ambiente adulto carico emozionalmente (in senso sadico o masochistico) e la cui memoria non è interamente rimossa. Il bambino deve ricercare, a seguito di tali esperienze, una sorta d’immunità sia negativamente, attraverso la rimozione, sia positivamente, attraverso accorgimenti che determinano la sua personalità (Izette de Forest parla di “protezioni”, “meccanismi di difesa”). Tali accorgimenti tendono automaticamente ad aumentare secondo una ratio che non corrisponde al bisogno dell’individuo. S’ingenera per questa via una sorta di circolo vizioso in virtù del quale l’“aumento di protezioni” costella maggiore angoscia e, di converso, un maggiore bisogno di difesa. La nevrosi così descritta assomiglia a un cancro che “minaccia di occupare l’intera vita dell’individuo e il cui approdo finale è la morte della personalità.”
Quanto ai fondamenti della tecnica terapeutica adottata da Ferenczi essi ruoterebbero intorno all’assunto che sono le emozioni lo strumento che consente a una relazione stabilità e continuità. In vista di ciò il metodo ferencziano è basato su tre regole (“precepts”).
Occorre in primo luogo che si formi e si mantenga tra analista e analizzato una relazione emozionale. A ciò contribuisce, ad esempio, l’impiego di quello che Izette de Forest chiama “dialogo drammatico” (alternativo allo schema classico che prevede una relazione insegnante-allievo nella quale l’uno impartisce interpretazioni-spiegazioni all’altro). Cosa dobbiamo intendere con l’espressione “dialogo drammatico”? La comunicazione, ad esempio, da parte dell’analista del proprio controtransfert, quando si presenta l’occasione e in modo naturale, spontaneo. Il “dramma” prevede inoltre la possibilità di criticare la personalità dell’analista, l’atteggiamento di vicinanza amichevole al paziente (il che rende non necessari la distanza analitica dal divano o l’interposizione di oggetti tra analista e analizzato), la possibilità di ricevere segni di stima e affetto da parte del paziente, l’incontro extra-analitico (quando l’incontro avviene naturalmente) e la dimostrazione di amicizia da parte dell’analista. “Tutto ciò che crea l’atmosfera di una vicinanza intima tra genitore e figlio” scrive Izette de Forest “contribuisce a mantenere la relazione dinamica che Ferenczi considerava necessaria”. La creazione di fiducia che ne risulta costella nell’inconscio del paziente un movimento del togliere. Ciò che è tolto corrisponde a quelle protezioni, difese etc. che servivano a tenere al riparo il bambino ferito nell’adulto.
In secondo luogo si tratta di ancorare ogni reazione emozionale del paziente al setting analitico e ricondurre associazioni e azioni alla persona dell’analista che viene a porsi al centro del processo, ovvero, come lo chiama l’autrice, del “dramma analitico”.
In terzo luogo, al fine di portare in superficie i momenti critici dell’analisi, occorre fare in modo che non si allenti la tensione emozionale. Come venga meno tale tensione emozionale Izette de Forest lo spiega subito dopo. L’impiego di terminologia tecnica, ad esempio, per quanto possa essere rassicurante per l’analista, “interrompe la corrente tra i due individui”. Per lo stesso motivo anche le interpretazioni dovranno essere date con parsimonia. Perché non debba venir meno la tensione emozionale Izette de Forest lo spiega facendo riferimento alla “prova empirica” secondo cui a un massimo di tensione segue sollievo “orgastico” e un vissuto temporaneo di fiducia e forza. Tale vissuto funziona come una sorta di apertura che lascia transitare sulla scena analitica nuovo materiale e nuove angosce fino al riprodursi di una nuova crisi e scarica emozionale.
E veniamo, stavolta più in sintesi, alla successione dei sei stadi del trattamento, la cui trattazione occupa la maggior parte dell’articolo. Izette de Forest li definisce, commenta ed esemplifica clinicamente (con casi tratti dalla propria pratica). Io mi limiterò a nominarli. Nel primo stadio del trattamento il paziente decide d’essere analizzato. Nel secondo il paziente scopre che le sue abitudini e i suoi manierismi corrispondono ad altrettante difese messe in atto contro situazioni angosciose. Nel terzo stadio il paziente apprende la “causa emozionale” delle sue paure attraverso un esame dei suoi tratti caratteriali e attraverso l’osservazione dei propri comportamenti (in particolare quelli messi in atto nei confronti dell’analista). Nel quarto stadio il paziente ammette il fallimento delle sue protezioni nevrotiche contro l’angoscia e di conseguenza ingaggia una lotta diretta contro la minaccia di distruzione che l’analista sembra rappresentare per lui. Nel quinto stadio il paziente rivive al sicuro le esperienze traumatiche della sua prima infanzia e ciò attraverso un conflitto con l’analista. Nel sesto e ultimo stadio del trattamento il paziente, in seguito al conflitto con l’analista, si disfa del suo distorto senso dei valori, impara a misurare il suo senso di realtà attraverso le realtà della situazione analitica e, infine, trova l’analisi non più soddisfacente per la propria vita.
È forse inutile precisare che la successione dei sei stadi del trattamento non appartiene a Ferenczi ma alla lettura che di lui ha fatto Izette de Forest, la quale, del resto, si dichiara consapevole dell’arbitrarietà di tali divisioni. Quanto alle obiezioni esse sono di quadruplice natura: riguardano l’uso del controtransfert come strumento tecnico (giudicato da molti analisti come estremamente pericoloso), l’atteggiamento dell’analista nei confronti della resistenza oppostagli dal paziente (con riferimento al suo trattamento “attivo”), la necessità di rivivere le prime esperienze traumatiche (cui viene da molti analisti opposta l’esperienza emozionale dell’insight) e, infine, il “tono drammatico del processo” (ritenuto una minaccia ai fini dell’esito positivo del trattamento). A quest’ultimo riguardo la Forest ritiene che l’analisi con Ferenczi sia in tutto simile a quella con Freud, eccettuata, appunto, la cifra di drammaticità che la informa, cifra orientata dalla partecipazione attiva dell’analista. In quest’ultimo caso il ricorso a terapie mentali appare più sicuro, espone di meno la persona dell’analista, ma equivale, più o meno, a una sua difesa. La controindicazione definitiva a questo modo di procedere è costituita dal fatto che il linguaggio dell’inconscio è emozionale e non mentale.
Alla prima delle obiezioni Izette de Forest oppone la convinzione nutrita da Ferenczi secondo cui un trattamento in cui viga una relazione pedagogica del tipo insegnante-allievo, alimentata dalla distanza tra analista e paziente, può curare una nevrosi, ma non ristrutturare in modo permanente la personalità del paziente. Per la de Forest occorre partire dalla constatazione che i sentimenti dell’analista sono fatti e che come tali vanno riconosciuti. Appare impossibile che questi fatti non sostanzino la situazione analitica, così come appare inimmaginabile che un analista intenzionato a curare il proprio paziente non si preoccupi per lui.
Relativamente alla seconda obiezione, è vero che l’attività rinforza la resistenza, ma è appunto questo aumento di forza che consente al paziente di entrare in “conflitto attuale” con l’analista e di duplicare gli eventi traumatici dell’infanzia. Ferenczi, scrive la Forest, considerava la resistenza come parte essenziale della costituzione emozionale del paziente. È soltanto a condizione di mantenere la resistenza e di aumentarla fino al suo punto di rottura che il paziente, smarrito temporaneamente il senso di realtà, ritorna il bambino impenetrabile o furioso o solo che un tempo era stato. Emerge chiara la difficoltà di un tale procedere, ma è anche vero che esso consente al paziente di apprendere dall’esperienza attuale quanto nessun insegnamento può dargli.
Per quanto riguarda la terza obiezione Izette de Forest cita la ferma convinzione di Ferenczi secondo cui nessun insight può sradicare permanentemente una nevrosi se il paziente non è in grado di ricatturare il ricordo del trauma precoce e di stabilire con l’analista una situazione drammatica tale da duplicare “perfettamente” l’esperienza originale. Non si tratta di imitare scene ma di indurre l’identica tensione emozionale. E la Forest ritiene che l’inconscio del paziente possa, per così dire, tentare la via della messa in crisi soltanto a ridosso di una fiducia nella persona dell’analista.
Alla fine dell’articolo, là dove si tratta di discutere i contributi di Ferenczi alla tecnica freudiana, Izette de Forest sostiene la tesi dell’ortodossia del suo analista di un tempo. Un’analisi à la Ferenczi è in tutto simile, secondo lei, a un’analisi à la Freud, con l’unica differenza della intensificazione emozionale e drammatica. Su questa sostanziale ortodossia di Ferenczi la de Forest insisterà anche nel libro The Leaven of Love pubblicato dodici anni dopo.