H. W. Cohn Existential Thought and Therapeutic Practice. An Introduction to Existential Psychotherapy 1997 e H. W. Cohn Heidegger and the Roots of Existential Therapy

Tratto da G. Antonelli, Schizzi genealogici psicofilosofici, in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, aprile 2008

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Per il terapeuta esistenziale Hans Cohn il punto di riferimento è Heidegger. Si tratta negli scritti di Cohn, e in lavori similari a partire da Boss, dell’ontologicrefrain (una declinazione dell’urgrundrefrain). La terapia esistenziale è ontologica, la psicoterapia tradizionale, soprattutto di derivazione analitica, è ontica. La prima è fondata, la seconda no. La prima è originaria, la seconda è derivata. L’ontologico, originario Mitsein (esser con, con-essere), l’originario essere in relazione, annichilisce il transfert. Da un punto di vista fenomenologico non c’è alcuna distinzione tra relazione reale e relazione transferale. La coscienza preriflessiva di Sartre annichilisce l’inconscio di Freud. In terapia la riflessione sull’irriflesso sostituisce il farsi conscio dell’inconscio. La coscienza di Freud è un mosaico di pezzi, una sostanza, una struttura, un sistema, una capsula, quella esistenziale è un’apertura. L’interpretazione analitica è esplicativa, l’interpretazione esistenziale è ermeneutica. Si tratta qui di un altro refrain insomma, chiamiamolo openshutrefrain, secondo cui l’analitico è chiuso e l’esistenziale è aperto. Il Dasein è in, ogni psicoanalitica incapsulata rappresentazione di psiche, soggetto, persona, Ego, coscienza è out. Il dentro analitico è out, il fuori esistenziale è in. Nella terapia esistenziale, infine, non si tratta di tecnica, ma di pratica. La tecnica è la risultante di uno scivolamento del terapeuta sotto la pressione dell’angoscia. Va detto, qui, che vige una certa tendenza a segnizzare l’interpretazione psicoanalitica. Si fa con essa quello che Jung aveva fatto col simbolo di Freud. Il proprio dell’interpretazione, ha scritto Ricoeur, così come il proprio della funzione narrativa, è non soltanto di dissipare l’oscurità, ma di creare oscurità, di produrre, portar fuori opacità. Se è vero che il linguaggio è enantiodromico, e cioè conduce al proprio limite (il silenzio), non è meno vero che, in quest’ottica, l’interpretazione è essa stessa produttrice di angoscia per l’Io. L’orizzontalizzazione configura quell’angoscia a partire da una spazialità opposta al profondo. È in gioco qui una diversa concezione della coscienza e delle sue relazioni con l’inconscio. Un modo di concepire tali relazioni è quello di porre la coscienza in un supposto sopra (superficie) e l’inconscio in un supposto sotto (profondo). Un modo altro è quello di concepire l’inconscio in una relazione orizzontale di confini con la coscienza. Nelle vicinanze dei confini, in prossimità di una passe, nel venir meno degli appoggi, l’Io, naturaliter anaclitico, è catturato dalla percezione che gli spazi si restringano. Nelle vicinanze del dispiegarsi e del venir fuori di altro rispetto all’Io, l’Io si fa sede dell’angoscia, tutto confini, tutto appoggi, tutto ritiro dall’aperto. La prospettiva dell’Auslegung guarda appunto al venir fuori e dispiegarsi nell’aperto. La coscienza è il regno delle evidenze. Nella misura in cui concepiamo la spazialità della coscienza, i sogni non sono conseguenze di qualcosa di retrostante, cioè di profondo, sono essi stessi nel loro mostrare. Nella misura in cui concepiamo la spazialità della coscienza non si danno spiegazioni causali. L’evidenza sta sempre là, nella coscienza, innanzitutto e per lo più alle spalle dell’Io.

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