Adattato da: Giorgio Antonelli, Il mare di Ferenczi. La storia, il pensiero, la vita di un maestro della psicoanalisi, Roma, Di Renzo Editore, 1996.
Hanna Segal pubblica il volume Melanie Klein nel 1979 (tradotto in italiano due anni dopo). Nella breve considerazione sui trascorsi di analizzanda della Klein, la Segal sostiene la maggiore importanza avuta da Abraham rispetto a Ferenczi. Per quanto fosse grata a Ferenczi “per averla incoraggiata nel suo lavoro” e per quanto sentisse “di dovere all’analisi con lui la convinzione dell’importanza delle dinamiche inconsce”, tuttavia Melanie Klein era insoddisfatta dell’analisi con Ferenczi (perché egli non analizzava il transfert negativo) e inoltre, aggiunge la Segal, non condivideva la sua tecnica attiva. È interessante a questo riguardo notare come, nel corso di una sua conferenza tenuta alla Società Americana di Psicoanalisi il 26 dicembre 1926, “Problemi della psicoanalisi nel momento attuale”, Ferenczi, che comunque chiamava Melanie Klein sua “ex allieva”, paragonasse la propria tecnica attiva alla tecnica del gioco usata da Melanie Klein con i bambini. Un debito della Klein nei confronti di Ferenczi risiede nell’impiego del concetto di “introiezione”, ma è il lavoro di Abraham, secondo la Segal, in special modo il lavoro sulla malinconia, a esercitare l’influenza maggiore su di lei. I nove mesi di analisi con Abraham le avevano offerto “una conoscenza autentica della psicoanalisi” ed è di Abraham, non di Ferenczi, che Melanie Klein si considerò allieva fino a ritenere il proprio lavoro “un contributo e uno sviluppo delle idee di Freud e di Abraham”. Tuttavia almeno un altro debito “profondo” di Melanie Klein nei confronti di Ferenczi viene brevemente menzionato dalla Segal. Non soltanto il concetto di introiezione ma anche quello di “identificazione proiettiva” (e di “fantasia inconscia”) sembra avere una forte relazione con il pensare analitico di Ferenczi. Segal afferma che Melanie Klein si richiama qui alla nozione ferencziana secondo cui “ogni simbolismo sorge dalla proiezione del corpo del bambino su oggetti esterni”. Occorre infine notare che nella Introduzione all’opera di Melanie Klein, pubblicato sempre dalla Segal nel 1964, Ferenczi non viene mai citato. Vale la pena di aggiungere, a tale riguardo, la tesi di Marie Torok secondo cui è stata la sistematicità di Abraham rispetto alla non sistematicità di Ferenczi ad accompagnare l’evoluzione del pensiero di Melanie Klein. La quale, secondo quanto ha scritto Jean-Michel Petot, si è dovuta letteralmente sbarazzare dell’eredità ferencziana (il che sarebbe avvenuto a partire dal 1935).
Otto anni dopo il libro di Hanna Segal viene pubblicato Melanie Klein. Il suo mondo e il suo lavoro di Phyllis Grosskurth. Per quanto attiene alla questione dell’analisi di Melanie Klein con Ferenczi l’autrice afferma che un analista come Ferenczi, così attento, così totalmente dedico ai suoi pazienti (cita a tale riguardo l’osservazione di Sándor Lorand, che fu suo paziente, sulla conoscenza che Ferenczi aveva “dei movimenti corporei, delle posizioni, dei gesti, delle modulazioni della voce…”) era quello che ci voleva per Melanie Klein che visse “tanti lunghi anni senza mai nessuno con cui confidarsi”. Interessante poi è il rilievo sul confronto Abraham-Ferenczi. Se da una parte è Abraham l’analista più citato da Melanie Klein, è Ferenczi l’analista su cui lei si diffonde di più nelle proprie note autobiografiche. Ferenczi è comunque presente là dove si affonda più nell’intimo. Come scrive Melanie Klein: “C’è tanto di cui devo essere grata a Ferenczi. Una cosa che egli mi trasmise, e che rafforzò in me, fu la convinzione dell’esistenza dell’inconscio e la sua importanza per la vita psichica”. Interessante anche l’episodio raccontato da Balint, e riferito anche da Grosskurth, occorso nel 1919 quando Melanie Klein era ancora in analisi con Ferenczi. Racconta Balint di aver visto Melanie Klein uscire in lacrime dallo studio privato di Ferenczi. Grosskurth riferisce anche che in quello stesso anno Ferenczi le donò una propria fotografia con la seguente dedica: “A Mela mia cara allieva”. Il soprannome ha a che vedere, probabilmente, con l’epiteto di Melanie Klein, (anche questo ricordato da Balint e riportato da Grosskurth), epiteto col quale era nota in seno alla Società Ungherese di Psicoanalisi: “bellezza nera”.